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 2010  agosto 19 Giovedì calendario

LA TRATTA DEI PICCOLI SCHIAVI ITALIANI

«È cosa da rabbrividire l’udire le sevizie, i maltrattamenti, ai quali il padrone sottopone quei fanciulli, ove ritornino la sera a casa senza portare il guadagno ch’esso sperava, o quella somma che aveva loro imposto il mattino; le percosse, la fame, i tormenti sono il frutto delle loro fatiche». Vincenzo Isacco e Carlo Salvarezza, scrivendo il loro «Commentario della legge di pubblica sicurezza del 20 marzo 1865» non trattenevano rabbia e compassione. Così come vibrava d’indignazione in Parlamento la voce di Teofilo Rossi parlando di quei bimbi «percossi a sangue, torturati con ferocia, di altri morti per mazzate, di altri svenuti per fatica e fatti rinvenire a staffilate per far loro riprendere il lavoro, di altri impazziti di dolore sotto i colpi della cinghia del negriero crudele, di altri morti di stenti e di fame e per calci nell’addome ricevuti dagli operai».

Fu quello il destino di tantissimi bambini italiani. A partire dalla metà dell’Ottocento fin dentro il XX secolo. È una storia terribile. In larga parte rimossa. Per pudore. Per vergogna. Per la scelta indecente di non fare i conti col nostro passato. Nonostante ci avesse già raccontato tutto, ad esempio, Edmondo De Amicis nel «Piccolo Patriotta padovano» di Cuore, scrivendo di un bimbo «di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l’occhio torvo. E aveva ben ragione di guardare tutti con l’occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua madre, contadini nei dintorni di Padova, l’avevano venduto al capo d’una compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l’era portato a traverso alla Francia e alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo mai».

A quella dolorosa epopea la storica Maria Rosa Protasi ha dedicato un libro denso di numeri, storie, testimonianze. Si intitola I fanciulli nell’emigrazione italiana (Cosmo Iannone Editore, pagine 267, 14) e

e dovrebbe essere letto nelle scuole. Per capire quanto sia falsa la tesi che «noi eravamo diversi». E rendere giustizia almeno con la memoria a quei nostri bambini che vissero l’inferno.

Erano altri tempi? Vero. Nell’Europa di fine ’800 «l’età minima di ammissione al lavoro di fabbrica era: 10 anni in Spagna e Danimarca; 11 in Inghilterra; 12 in Russia, Austria, Olanda, Portogallo, Svezia, Belgio, Ungheria; 13 in Francia e Germania; 14 in Svizzera e Norvegia» e 9 da noi. La «tratta dei fanciulli», però, era soprattutto italiana. E in certe aree poverissime era una piaga. Come a Bagni di Lucca, «una delle località di reclutamento dei figurinai» dove soltanto fra il 1896 e il 1897 partirono «417 figurinisti, di cui 87 come padroni e 330 fra apprendisti». O a Mezzanego, Appennino ligure, dove secondo il procuratore del Re presso la Corte d’Appello di Genova «tre quarti delle famiglie affitta i propri ragazzi, come suonatori, espositori di bestie etc. Vi sono 17 incettatori di cotesti fanciulli ridotti a merce. Le notizie che di loro giungono al paese sono per lo più desolanti».

Venduti o affittati, i piccoli finivano sui mercati dell’agricoltura francese («A Barcellonette, in alta Provenza, il mercato dei bambini si teneva il 20 aprile e coinvolgeva annualmente dai 300 ai 400 minorenni»), nei cantieri edili svizzeri o tedeschi, nelle miniere, nelle vetrerie francesi... Quale fosse il loro destino ce lo spiega La Basilicata e il Nuovo mondo di Enzo Vinicio Allegro: «Per testimonianza di un medico napoletano, su 100 fanciulli dei due sessi che abbandonano i loro villaggi, 20 soltanto ritornano alle loro case, 30 circa si stabiliscono nelle diverse parti del mondo e 50 soccombono alle malattie, alle privazioni di ogni sorta ed ai cattivi trattamenti!».

Moltissimi, come denunciava il diplomatico Raniero Paulucci de Calboli («già fin dal 1873 il "New York Times", e più tardi, nel 1885, il "Philadelphia Times", calcolavano a 80.000 i fanciulli italiani d’ambo i sessi appartenenti a quella categoria di girovaghi da cui escono i delinquenti e le prostitute») finivano in America. «Nella folla molteplice che empie i transatlantici diretti a Boston c’è sempre una piccola porzione di giovinetti i quali pongono la Società in serio imbarazzo», spiegava nel 1906 un certo padre Roberto Biasotti descrivendo l’attività della società umanitaria San Raffaele. «Lo sfruttamento del minorenne esportato non è una privativa delle vetrerie francesi. Anche in America si pratica su larga scala e con mezzi tali che sfidano la legge perché coperti dal manto della legalità! La legge vieta lo sbarco ai giovani sotto i 17 anni compiti, se non siano accompagnati o diretti dai parenti. Ma qui i parenti si fabbricano con una velocità allarmante...». Era bestiale, il lavoro nelle vetrerie: «Questi ragazzi», spiegò in Parlamento il sottosegretario Scipione Ronchetti, «per nove decimi diventano tubercolotici e quelli che sopravvivono al guardarli fanno fremere d’orrore».

Per non dire delle «fanciulle e giovani donne italiane coinvolte nei circuiti illegali dell’emigrazione a scopo sessuale». Quelle del Nord finivano soprattutto nei bordelli europei, quelle del Sud venivano avviate sui mercati dell’Africa mediterranea: «Le province napoletane, specie quella di Benevento, rifornivano ad esempio l’Egitto, mentre quelle siciliane avevano rapporti privilegiati con la Tunisia». Il deputato toscano Ettore Socci era allarmatissimo: «Il maltrattato fanciullo d’oggi sarà il delinquente o l’anarchico di domani. Se il ragazzo cresciuto nel rigagnolo della strada esposto a tutte le intemperie del cielo e a tutta la brutalità degli uomini; se il piccino che non ha da dormire né da mangiare e in pieno inverno vede passare nella carrozza di una gran signora, un canino ravvolto nelle pellicce ed egli ha freddo, e trema e soffre, concepisce l’odio più feroce verso la società e viene il giorno in cui scaglia una bomba, parliamoci chiaro, siamo noi che gliela abbiamo fatta lanciare».