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 2010  agosto 19 Giovedì calendario

1938 IL DELITTO DEL NEONATO BRUCIATO CHE TORMENTAVA MAJORANA

Aveva 31 anni, i capelli corvini, gli occhi vivacissimi e tristi. Si imbarcò su una nave a Palermo per raggiungere Napoli è scomparve per sempre. Era la sera del 26 marzo 1938, un sabato. Da allora la storia di Ettore Majorana, il grande scienziato che lavorò con Enrico Fermi nella scuola di fisica di Via Panisperna a Roma, si dissolse in un mistero che il tempo ha reso ancora più impenetrabile. Persino Leonardo Sciascia indagò con il suo libro «La scomparsa di Majorana» nella strana vicenda di un uomo straordinario nella genialità quanto nella debolezza della sua natura. E ricostruendone i passi è attratto dall’ipotesi di un ritiro tra le mura di un convento. C’è, invece, chi ha immaginato una fuga in Argentina oppure un suicidio perfettamente studiato da non lasciare traccia. Questo è un mistero ben noto, scandagliato da libri e film. Ma che cosa ha scatenato in Majorana la decisione di eliminare la sua immagine dalla faccia della Terra? Ecco il mistero nel mistero nel quale si è immerso Joao Magueijo, un fisico portoghese che insegna teoria della relatività all’Imperial College di Londra e che, avendo frequentato per anni il «Centro Ettore Majorana» di Erice, in Sicilia, non ha potuto sottrarsi al fascino di una luce improvvisamente spenta. Esplorando tra documenti e persone ha infine scritto «La particella mancante» (Rizzoli) nelle cui pagine fa emergere soprattutto due eventi, uno umano e l’altro scientifico, forse all’origine della drammatica scelta. Il primo risale al 1924. Ettore ha 18 anni e lo zio Dante, al quale era molto legato, viene accusato di essere il mandante di un terribile omicidio: l’uccisione di un bimbo nella culla alla quale è dato fuoco. Il neonato è figlio dell’industriale Antonio Amato le cui due sorelle hanno sposato Dante e Giuseppe Majorana, illustri avvocati e zii di Ettore. La polizia raccoglie dalla sedicenne bambinaia Carmela, affetta da ritardo mentale, l’ammissione di essere stata lei a incendiare la culla. La vicenda però si complica come ogni storia siciliana che si rispetti. Le due sorelle di Amato erano appena state escluse da un’eredità di cui si appropria interamente Antonio. Dante e Giuseppe, avvocati, portano in tribunale la rivendicazione delle loro mogli e il giudice stabilisce un risarcimento da parte di Antonio. Qualcuno allora fa circolare l’ipotesi che le colpe ammesse dalla bambinaia non fossero credibili e che Dante e Giuseppe andassero indagati. Carmela ritratta la sua prima deposizione e accusa l’ex fidanzato, sua madre e il fratello di essere stati loro a indurla a compiere il folle gesto. E finiscono in carcere. Passano anni, il processo è riaperto e i colpevoli concordano una versione di difesa comune: loro avevano agito su mandato di Dante Majorana il quale viene subito imprigionato assieme alla consorte. Ettore scrive allo zio quasi ogni giorno e poi confida all’amico Gleb Wataghin: «Non mi fido degli avvocati, sono tutti degli idioti. Scriverò io stesso la difesa di mio zio: so che cosa è accaduto». Dopo otto anni la vicenda diventata sui giornali «Il delitto della culla» e il «Misterioso caso Majorana», si chiude con l’assoluzione favorita da una terza versione dei fatti della bambinaia e dalla prova dei testimoni minacciati dalla mafia. «Il caso del bambino bruciato produsse ferite permanenti in Ettore — sostiene Magueijo — la famiglia ristabilì l’onorabilità del proprio nome ma agli occhi di Ettore lo sporcò ancora di più. Ettore perse la fede nella razionalità. Nel 1933 precipitò nella follia, ed è innegabile che l’episodio del bambino arso vivo diede un contributo decisivo al suo crollo». Secondo evento. Nel 1932 Ettore Majorana pubblica una teoria sulla natura e il comportamento di alcune fondamentali particelle nucleari che si contrappone a quella già nota del fisico britannico Paul Dirac. «Rimarrà la sua sinfonia incompiuta», dice Magueijo. I rapporti con il gruppo di fisici di Via Panisperna non sono buoni. Ettore viene battezzato «il grande inquisitore». Nel gennaio 1933 parte per l’Istituto di fisica di Lipsia per lavorare con Wernher Heisenberg già famoso per il «Principio di indeterminazione». Appena arrivato la sua ritrosia e le difficoltà nei rapporti sembrano dissolversi. Manda alla famiglia lettere piene di insolito entusiasmo. Con lo scienziato tedesco, Ettore condivide ricerche importanti sull’interazione forte che tiene insieme i nuclei atomici, ma anche certe inclinazioni filosofiche che arricchiscono i loro incontri. In quei giorni il clima in Germania volge al peggio. Hitler ha appena conquistato il potere e nella notte del 27 febbraio il Reichstag è incendiato. Ettore si trasferisce momentaneamente a Copenaghen all’Istituto di Neils Bohr, uno dei creatori della meccanica quantistica, «il maggior ispiratore della fisica moderna — scriverà in una lettera — ora un po’ invecchiato e sensibilmente rimbambito». Dopo una breve vacanza pasquale romana, Ettore torna a Lipsia e precipita nella depressione. Non frequenta più nessuno, vede male persino Heisenberg. «Forse le radici di ciò che sarebbe successo nel marzo 1938 vanno cercate nel maggio 1933?» si chiede Magueijo. «Un evento si abbattè con forza su di lui. Era infatti a Lipsia quando cominciarono a giungere notizie che la sua critica alla teoria di Dirac, inclusa nel suo capolavoro del 1932, fosse sbagliata. Solo negli anni Sessanta il suo capolavoro sarà riscoperto e riconsiderato». In quei mesi aveva anche interrotto i rapporti con il gruppo di Via Panisperna e quando torna a Roma nell’agosto 1933 si isolerà per cinque anni dal mondo non uscendo quasi mai dalla sua camera senza nemmeno tagliarsi più i capelli. Solo Edoardo Amaldi manterrà un tenue filo di amicizia. Siamo nel 1938 e mentre Enrico Fermi inseguito dalle leggi razziali volava a Stoccolma per il premio Nobel e poi in America, Ettore architettava la scomparsa. «La maledizione del bimbo carbonizzato cambiò per sempre la sua visione del mondo — conclude Joao Magueijo —. E quando l’angoscia si attenuò nei mesi che precedettero la trasferta a Lipsia era probabilmente troppo tardi perché egli potesse trovare sollievo».