Vincenzo Trione, Corriere della Sera 19/8/2010, 19 agosto 2010
IL FONDATORE DELLA POP ART: LA MISTICA OLTRE IL BUSINESS
New York, fine febbraio 1987. Andy Warhol è mort o da pochi giorni. In una fotografia di Evelyn Hofer, vediamo come ha lasciato il suo studio. Alle pareti laterali, quadri incompiuti, occupati da frammenti di quotidianità: un piatto di vermicelli e zuppa di pollo. Sul murocentrale, un grande di pi nt o: un’estrema riscrittura da L’ultima cena di Leonardo. In primo piano, ieratico, Gesù: il viso reclinato, lo sguardo melanconico. In quello scatto, si nasconde l’anima ambigua dell’inventore della Pop Art: in bilico tra mercificazione e spiritualità. Da un lato, il profeta della business art, sostenitore di una poetica fondata sulla riproducibilità tecnica, il cantore di un’America dominata da miti effimeri, forse il maggior cortigiano del Novecento, impegnato a ritrarre le celebrities del suo tempo. Dall’altro lato, un pittore di forte sensibilità religiosa.
Sembrerebbe un paradosso. Invece, dietro la maschera glamour dell’ultima star dell’arte contemporanea, si cela un mistico. Lo dimostrano alcune recenti occasioni espositive e critiche. Un’antologica, Andy Warhol: The Last Decade (al Brooklyn Museum di New York); un volume di John Wilcock, The Autobiography and Sex Life of Andy Warhol; e il libro di uno tra i più autorevoli estetologi statunitensi, Arthur C. Danto ( Andy Warhol, Einaudi, pp. 149, 18,50). e Ad accomunare queste investigazioni è la necessità di ricostruire l’identità meno indagata di Warhol. Il quale, soprattutto negli anni Ottanta, è tormentato da alcune domande «definitive»: sulla vita, sulla trascendenza, sull’assoluto. Sono, queste, interrogazioni che lo accompagnano da sempre. Come rivela in un’intervista del 1963, in cui dichiara: «Mi resi conto che qualsiasi cosa stavo facendo doveva essere morte».
Possiamo muovere da questa affermazione per portarci al di là della patina superficiale in cui sono avvolti gli esercizi pop. Siamo dinanzi a inattese composizioni metafisiche, nelle quali ogni movimento è arrestato. Nature morte postmoderne, dove i volti — isolati dai contesti circostanti — vengono immobilizzati. Le reliquie della civiltà del benessere sono congelate. L’ornamento, qui, non è decorazione lucente, ma vuoto, silenzio. Warhol considera ogni sua opera come una meditazione sull’esistenza: sul destino dell’uomo. Ogni suo gesto ha il valore di un memento mori. Si pensi alle serie dedicate agli scontri automobilistici, agli incidenti aerei, ai suicidi, alle sedie elettriche, ai teschi. Alle foto dei criminali braccati dalla polizia; al dittico ispirato al terremoto di Napoli del 1980. E, infine, agli omaggi alle icone del jet-set: Jacqueline Kennedy, in lutto dopo l’attentato di John Fitzgerald; Liz Taylor, consumata dalla malattia; Marilyn Monroe, riposta in un rosa funereo. In questi episodi, vi è corporeità, ma anche sguardo apocalittico. Bellezza e morte della bellezza.
Dotato di capacità sociologiche, Warhol si spinge oltre l’immanenza. Sorretto da una sorta di tensione tragica, perlustra gli interstizi del presente. Dietro le sue ricognizioni nell’attualità, si può cogliere sempre una profonda e nichilistica inquietudine. Testimonianze impersonali del visibile, le sue opere evocano continuamente il senso della fine: lasciano intuire struggimenti. Queste diverse geografie emozionali sono rese attraverso abili strategie: la freddezza del processo serigrafico convive con abbandoni espressionistici.
Di fronte a noi, è una figura che ha un autentico istinto filosofico. Ha provocato, scandalizzato. Ma, come ricorda Danto, non ha mai rinnegato i suoi modelli educativi familiari, segnati dalla cultura cattolica. Figlio di una donna molto devota, l’artista ha costantemente praticato la preghiera. Si tratta di un importante dato biografico, che ci aiuta a comprendere meglio il significato sotteso alle opzioni stilistiche degli anni Ottanta. Siamo in una fase di ipocondrie e di dolori privati. Eppure, proprio a quel periodo risale la stagione creativa più felice. Warhol recupera momenti della storia dell’arte (da Botticelli a de Chirico). Si avvicina alla pittura, riscoprendo il fare con le mani. Rende più riflessivo e drammatico il suo linguaggio. Attraverso l’arte, si confessa: parla di politica, di sesso. E dà voce a uno spiritualismo fino ad allora segreto, inteso non come approdo, ma come necessità, urgenza: «strumento» che, nell’alleviare ansie, lascia intravedere oasi salvifiche.
Questo ripensamento è alla base degli omaggi a L’ultima cena del 1986. Warhol non propone una rilettura anacronistica. In The Last Supper, sottopone quel capolavoro — ormai entrato a far parte dell’immaginario popolare — a un sofisticato make-up, fino a farne smarrire l’aura. Dialogando con Leonardo, esteriorizza, come scrive Danto, «l’interiorità del mondo che noi tutti abbiamo in comune». Ma, soprattutto, parla di sé. Mette in scena le sue sofferenze: la paura di un’imminente fine. Un po’ come aveva fatto in un autoritratto del 1978, dove era apparso atterrito, disperato: la bocca aperta, gli occhi verso l’alto. Ecco Andy Warhol, martire del XX secolo.