Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 19/8/2010, 19 agosto 2010
IRAQ, GIÀ INIZIATO IL RITIRO DEI SOLDATI USA
Bagdad — Stanno uscendo in anticipo. La data ufficiale per il ritiro delle unità americane combattenti dall’Iraq resta il 31 agosto. Ma proprio in queste ore gli ultimi soldati stanno abbandonando il suolo iracheno. Entro la serata di oggi l’operazione dovrebbe essere praticamente completata: resteranno sul campo i 50.000 uomini che dal primo di settembre saranno l i mitati per l o più a compiti di addestramento delle nuove forze di sicurezza irachene.
I comandi Usa hanno fatto del loro meglio per evitare di esporre i soldati a imboscate e attentati. Non occorre essere esperti di cose militari per capire che in una fase come questa qualsiasi esercito diventa estremamente vulnerabile. E la propaganda del nemico ha gioco facile nel trasformare ogni eventuale incidente, anche lo scontro a fuoco più insignificante, in una grande vittoria.
Così ben poco è trapelato del los mantell a mento dei campi militari sul suolo iracheno, quasi nessuna notizia dei giganteschi convogli di mezzi pesanti verso il porto di Bassora e le basi in Kuwait o Arabia Saudita. Tanta segretezza ricorda da vicino il ritiro israeliano dal Libano meridionale 10 anni fa. L’allora premier Ehud Barak aveva annunciato il completamento dell’operazione entro il giugno 2000. Ma, proprio per non mettere a rischio i soldati dai clamorosi blitz già annunciati allora da Hezbollah, l’evacuazione fu avviata con largo anticipo, sino alla notte del 24 maggio, quando anche gli ultimi soldati lasciarono nel massimo segreto il suolo libanese.
In questo caso però la cosa è molto più complessa. Le radici dell’operazione risalgono all’accordo tra l’ex presidente americano George Bush e il premier iracheno Nouri al Maliki nell’estate 2008. Si era al culmine del surge, la grande offensiva contro Al Qaeda, le milizie sunnite e quelle estremiste sciite, lanciata nel febbraio 2007 sotto la guida del generale David Petraeus. Le truppe americane presenti sullo scenario iracheno avevano superato le 170.000 unità, il numero più alto dall’invasione del 2003. E i risultati c’erano stati, importanti, positivi.
Per la prima volta dall’ondata di attentati e massacri iniziata già nell’autunno 2003, il Paese dava segni di graduale stabilizzazione. Se nei picchi di sangue del 2006-7 i morti iracheni superavano i 3.000 mensili, ora si stava scendendo a meno di 400. E per le strade cominciavano ad apparire le nuove forze di sicurezza irachene, anche l’economia dava timidi segni di ripresa. I problemi per Bush crescevano invece in casa: gli americani dimostravano di non accettare più il tributo di sangue dei loro soldati. Oltre 3.000 morti dall’invasione, che oggi sfiorano quota 4.500, oltre a 30.000 feriti.
Occorreva stabilire al più presto il calendario di una «exit strategy». L’anno scorso il presidente Barack Obama è stato ben felice di ratificare le intese firmate dal suo predecessore. Il suo obbiettivo ora è concentrarsi sull’Afghanistan, sperando che ancora Petraeus (il suo nuovo comandante sul campo dopo le controverse dimissioni del generale Stanley McChrystal) sia in grado anche qui di creare le condizioni per il ritiro.
Eppure il nodo iracheno non è stato ancora sciolto. La crisi politica (dalle elezioni del 7 marzo non è ancora stato creato il nuovo governo), la recente ripresa degli attentati e le preoccupazioni tra i militari e la società civile locali, che paventano il ritorno massiccio della violenza a fronte del vuoto lasciato dagli americani, lanciano pesanti ipoteche sul futuro. Il primo di settembre termina formalmente la missione «Iraqi Freedom » , iniziatacon la guerra del marzo 2003, e comincia la «New Dawn», la nuova alba, che nelle speranze dei suoi fautori dovrebbe traghettare il Paese verso la normalizzazione. «Non ce ne andiamo. Almeno sino alla fine del 2011 resteranno 50.000 soldati Usa per addestrare gli iracheni», cercano di tranquillizzare da Washington e i portavoce americani a Bagdad. Ma per il momento sono in tanti qui a trattenere il respiro.