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 2010  agosto 19 Giovedì calendario

PASSERA: «C’È UNA FUGA DALLE RESPONSABILITÀ DELLA CLASSE DIRIGENTE»

Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, in un’intervista al Corriere parla del presente e del futuro del Paese. Con problemi difficili come «la recessione, la mancanza di rispetto per le istituzioni, la fuga dalle responsabilità della classe dirigente» che creano incertezza e paura, con la politica che non elabora un progetto condiviso per il futuro.
Ma sono tanti gli elementi sui quali ricostruire la fiducia: «Siamo la terza economia europea, tra i settori che crescono di più ce ne sono alcuni nei quali eccelliamo: dall’automazione industriale al sistema-casa, dal sistema-moda all’ agribusiness». L’Italia dell’imprenditoria non è ferma, dice Passera, molto più fermo è il sistema Paese. SABAUDIA — Nella cameretta della casa dove Corrado Passera sta passando gli ultimi giorni di vacanza, dorme la piccola Luce, che ha appena compiuto un mese. Dice l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo che diventare padre per la terza volta, a 55 anni, «non solo è bellissimo», ma induce a «pensare ancor più in lungo». A riflettere sul futuro, e in particolare sul «clima di sfiducia», sul «vuoto multiforme che ci circonda». «La recessione, i problemi non risolti, la mancanza di rispetto per le istituzioni, la fuga dalle responsabilità della classe dirigente — "in Italia non si può, mancano le risorse, il declino è inevitabile.." — creano incertezza e paura. La politica non elabora un progetto condiviso per il futuro del nostro Paese, per rafforzare la nostra economia e la nostra democrazia: da qui il vacillare dell’identità, che è importante perché tiene insieme la società. Invece sono tanti gli elementi sui quali ricostruire la fiducia: siamo la terza economia europea — a pari merito con il Regno Unito —, siamo la sesta o settima economia mondiale; abbiamo retto meglio di quasi tutti gli altri Paesi la crisi finanziaria, siamo riusciti a tenere sotto controllo i conti pubblici; abbiamo le risorse per vincere la partita della globalizzazione grazie anche alle tante energie nascoste della nostra gente. Anche le mie esperienze professionali mi dicono che le situazioni più difficili si possono risolvere se c’è un forte progetto condiviso, la disponibilità al cambiamento, la determinazione ad affrontare i problemi. Si è potuto rifondare l’Olivetti puntando sulla telefonia mobile, si è potuto superare la crisi di Intesa, che nel 2002 era in grave difficoltà, e con il Sanpaolo costruire una delle migliori banche europee. Ma forse la vicenda più significativa che ho vissuto è stata quella delle Poste: una sorta di metafora dell’Italia. "Non si può, è finita, è troppo tardi, non saremo mai come gli altri Paesi; i sindacati, la burocrazia...". Insomma: i soliti stereotipi. Invece tutti insieme, "gli azionisti" — all’inizio Ciampi e Maccanico —, i postali, i sindacati e il management hanno fatto ciò che sembrava impossibile. La reazione, in particolare al Sud, è stata fantastica. E si è dimostrato che era possibile stringere accordi innovativi con i sindacati, estirpare le connivenze locali con la cattiva politica e la malavita, ridare dignità a 200 mila lavoratori, e pure fare concorrenza al sistema bancario. Certo, per riprendere in mano simili situazioni bisogna impegnarsi tanto, andare contro tanti interessi, fare piani di lungo periodo, credere nelle persone. Ma questa straordinaria esperienza mi ha confermato che l’Italia ha un enorme potenziale anche nel settore pubblico».
Dottor Passera, l’Italia al momento è ferma. Da anni l’economia non cresce o cresce poco. Perché? E dove vede questo «potenziale enorme»?
«L’economia mondiale cresce e molto e, anche se la crescita è concentrata nei Paesi emergenti, per noi è una grande opportunità. Tra i settori che crescono di più ce ne sono alcuni nei quali eccelliamo: dall’automazione industriale al sistema-casa, dal sistema-moda all’ agribusiness. Ma pensi alla filiera della salute e a quella del turismo. Tutti settori portanti della nostra economia, dove possiamo crescere in modo sostenibile. E ci serve ben di più dell’1% all’anno se vogliamo creare nuova occupazione. L’Italia dell’imprenditoria non è ferma. Molto più fermo è il sistema paese. Sappiamo quello che c’è da fare ma continuiamo a non farlo: infrastrutture, formazione, meccanismi decisionali, giustizia...».
La giustizia in particolare è vista come uno dei grandi problemi.
«La giustizia è diventata il problema numero uno: non c’è patto sociale senza regole condivise e fatte rispettare, senza diritti tutelati, senza sanzione anche sociale per chi non le rispetta. Oggi non è così. In questa situazione crolla la fiducia nello Stato, la grande criminalità si rafforza, la corruzione si diffonde, gli investimenti stranieri scelgono altre destinazioni. Evidentemente per ora sono più forti coloro che non vogliono una giustizia funzionante. Bisogna affrontare il problema alle radici con riforme coraggiose e rispettose della nostra Costituzione».
Si riferisce alla guerra infinita tra politica e magistratura?
«Anche, ma non soltanto e non da oggi. Far funzionare la giustizia penale, civile ed amministrativa non interessa ai "cattivi". Non a chi nella giustizia vede un limite alle proprie attività illecite o anche solo parassitarie. Tante lobby non vogliono una giustizia funzionante. Ma la sua insopportabile lentezza è solo una delle lentezze che frenano la nostra crescita. Pensiamo alle lentezze istituzionali. Quanto tempo ci vuole per fare una legge dello Stato? A parte i provvedimenti "obbligatori" come la Finanziaria e la Comunitaria, quanti disegni di legge arrivano in fondo in tempi ragionevoli? Ormai siamo alla decretazione d’urgenza per tutto. Non è colpa del cielo, ma solo nostra se non mettiamo mano all’amministrazione centrale, al funzionamento delle commissioni parlamentari, ai regolamenti delle Camere; oltre che a una legge elettorale seria, che ci consenta di scegliere i nostri rappresentanti. Pensiamo poi alle lentezze amministrative. Tempi clamorosamente inaccettabili quando si parla di infrastrutture. Senza strade, ponti, ferrovie, senza reti innovative di telecomunicazione, senza termovalorizzatori e rigassificatori, il Paese non cresce. Tra Bruxelles ed i Comuni ci sono almeno cinque livelli istituzionali. A ogni livello ci sono talvolta decine di entità che devono partecipare al "concerto decisionale". Tutte con diritto di veto ma senza la responsabilità di pagare il costo dei ritardi. I costi del non-fare non compaiono in nessun bilancio, ma sono enormi. Per ogni tipologia di decisione va chiarito chi deve decidere ed in che tempi».
Sì, ma dove trovare le risorse, senza far saltare i conti pubblici?
«Non è facile, ma le risorse si possono e si devono trovare: su questo ci giochiamo il futuro. Se vogliamo recuperare almeno parte del ritardo perduto, dobbiamo investire in maniera focalizzata 40-50 miliardi all’anno per 5-6 anni. Non sono cifre fuori dalla nostra portata. Ci sono tanti fondi pubblici stanziati e non spesi e ciò succede anche con i fondi comunitari. Molti progetti infrastrutturali si possono autofinanziare o possono mobilitare fondi privati. Parliamo di mancanza di risorse per realizzare opere indispensabili e tolleriamo centinaia di miliardi di evasione fiscale e sprechi di ogni genere negli 800 miliardi di spesa pubblica annuale!».
Il federalismo fiscale può essere un modo per ricondurre gli enti locali alla loro responsabilità?
«L’incremento delle autonomie può rafforzare il nostro Paese e la nostra democrazia. Ma, se si delega senza controllo, esplodono i costi e si incoraggia la corruzione; se si delega senza coordinamento, si perde responsabilità ed efficacia. La nostra promozione turistica è, ad esempio, del tutto inefficace anche perché è spezzettata: venti bilanci da dieci milioni sono meno efficaci di un bilancio unico da duecento. Su alcuni temi, il localismo è controproducente. Ci sono settori, dalla mobilità all’energia, che richiedono una visione nazionale se non addirittura europea. Dieci piccoli aeroporti non fanno un grande hub, dieci piccole università di provincia non fanno automaticamente un centro di eccellenza».
Quanto è importante l’italianità delle imprese?
«È importante avere in Italia grandi aziende vitali in ogni settore, italiane e non italiane, con le loro strutture di vertice. Le direzioni centrali dei grandi gruppi internazionali sono una delle fucine di classi dirigenti in tutti i Paesi; per questo non basta accontentarsi di avere in Italia le filiali commerciali o logistiche di aziende con la testa altrove. In alcuni settori, la proprietà nazionale può aver vantaggi molto rilevanti soprattutto nei momenti di crisi economica. Pensiamo alla grande distribuzione o alle banche».
Perché allora Intesa Sanpaolo si è impegnata tanto in Alitalia?
«Perché c’erano i presupposti per creare una nuova azienda sostenibile e salvare almeno 15 mila posti di lavoro. Quella della nuova Alitalia è una bella storia. Quando ci è stato chiesto cosa si poteva fare — e già Air France se ne era andata da tempo —, abbiamo dato un parere che non ha fatto certo piacere al governo: abbiamo detto che la vecchia Alitalia doveva fallire, perché non aveva più i presupposti per stare sul mercato. Sarebbe stato un errore continuare a metterci miliardi pubblici. Secondo noi si poteva, però, provare una missione quasi impossibile: creare, con soldi privati, una nuova Alitalia, capace di competere in un mercato difficilissimo. Abbiamo raccolto più di un miliardo, ne è nata un’Alitalia nuova che, grazie ai manager, agli azionisti ed a tutti coloro che ci lavorano, ce la sta facendo. C’è da essere soddisfatti. A dispetto di tutti coloro che sapevano solo ripetere "in Italia non si può"».
La nuova Alitalia non finirà comunque in bocca ad Air France?
«Air France è un socio. Per ora la nuova Alitalia ha risposto alla crisi meglio di molte compagnie europee blasonate, anche di Air France. Se tra qualche anno ci saranno ulteriori fasi di consolidamento europeo in questo settore, Alitalia se la potrà giocare tra i protagonisti».
Lei ha detto di ricordare con orrore l’anno in cui pure alla Bocconi diedero i trenta politici. In Italia c’è un problema di meritocrazia?
«Sì, e molto grave. E per questa ragione perdiamo molti giovani in gamba che preferiscono andare a far fortuna altrove. È un fenomeno non assente nel privato ma diffuso soprattutto nel mondo pubblico, dove in molti settori la carriera o l’aumento di retribuzione sono scandite solo dall’anzianità. Prenda la scuola: un professore capace, impegnato, aggiornato, vede il suo stipendio e il suo posto in graduatoria muoversi nello stesso modo in cui si muove un professore impreparato, svogliato o addirittura assente. Le scuole dovrebbero almeno in parte poter scegliere i propri professori. Si dovrebbe rendere davvero accessibile l’università a tutti i meritevoli, come prevede la nostra Costituzione. Va valorizzato di più il lavoro femminile: io tendo a non firmare più liste di promozioni, se non c’è un adeguato numero di donne». Lei è per le quote rosa? «Sì, "forzare" per legge la nomina di competenze femminili nei consigli di amministrazione, anche se non è un meccanismo idealmente meritocratico, può essere un modo per recuperare parte del ritardo italiano. Le grandi aziende possono e devono fare da capofila».
Ma la forza dell’Italia non sono forse le piccole imprese?
«Le piccole imprese sono una delle nostre forze, dobbiamo farne nascere di nuove e rendere la vita meno inutilmente complicata a chi vuol fare impresa. In molti settori, però, dove servono grandi investimenti, la piccola dimensione può essere un limite grave. Occorrono anche organizzazioni dove si fanno ricerca e formazione, dove si valorizzano competenze legate alla complessità. E questo accade soprattutto nelle grandi e grandissime aziende. Se non avessimo le nostre dimensioni, non potremmo avere in banca un servizio studi dove ci sono decine di persone che fanno ricerca. Eppure le regole italiane, dal fisco al diritto del lavoro, non incoraggiano le aggregazioni, anzi incentivano a restare piccoli. Così ci sono imprenditori che hanno 3 o 4 aziende, tutte sotto i 15 dipendenti». Quale può essere il ruolo delle banche? «Parlare genericamente di banche ha poco senso. Non esistono "le banche". Nel mondo esistono banche che sostengono l’economia e altre che non meriterebbero neppure il nome di banca, perché fanno solo speculazione finanziaria. Le banche dell’economia reale, le banche commerciali possono svolgere un ruolo insostituibile nella società. Devono essere a fianco delle imprese e delle istituzioni su tutti i progetti sostenibili che creano sviluppo, come noi di Intesa Sanpaolo facciamo ad esempio con la nostra banca dedicata alle infrastrutture. E devono essere a fianco, come noi con Banca Prossima, al mondo del terzo settore e dell’impresa sociale». Servono nuove regole? «Le vere banche non temono le regole, anzi le sollecitano. Personalmente sono favorevole anche ad aumentare la tassazione su talune rendite finanziarie, che in Italia sono troppo basse rispetto alla media europea, e a una tassa ragionevole sulle transazioni finanziarie. Purtroppo di regole che possono evitare il ripetersi di crisi devastanti, ne abbiamo per ora viste poche». A cosa si riferisce? «La crisi è stata causata da tante ragioni macroeconomiche, ideologiche e di governance e certamente anche da mancanza di regole e di controlli sull’eccesso di indebitamento, sull’eccessiva speculazione sulla liquidità, sull’uso eccessivo dei derivati. Questi problemi di fatto non sono ancora stati disinnescati. Ci si è concentrati per ora soprattutto sui requisiti di capitale».
Ma anche le «vere banche» sono spesso criticate. Esiste in Italia una retorica contro le banche. Ma esistono anche sofferenze reali. Pensa mai alle famiglie che rischiano di perdere la casa?
«Per ora in Italia siamo riusciti ad evitare quasi del tutto questo dramma sociale che ha colpito molti Paesi. Non abbiamo avuto bolle immobiliari particolari, non c’è stata la crisi dei mutui. Quando potevano crearsi tensioni ci siamo inventati moratorie di vario tipo. E in Italia non c’è stato bisogno di nessun salvataggio pubblico di banche. La crisi ovviamente si è sentita: basta pensare alle decine di miliardi di perdite su crediti mai restituiti. Anche nei momenti più difficili non ci siamo tirati indietro. Ora dobbiamo rilanciare tutti insieme la crescita per creare occupazione, che è il tema più importante e in questo periodo più trascurato. Purtroppo, l’Italia sta passando l’estate a parlare d’altro».