Federico Fubini, Corriere della Sera 19/8/2010, 19 agosto 2010
Armi, tribunali del popolo e tangenti: i maoisti che ricattano l’India moderna - DANTEWADA — Dantewada sotto il monsone perde di colpo tutti i suoi colori, come se la città fosse presa a frustate dalla natura da cui è avvolta
Armi, tribunali del popolo e tangenti: i maoisti che ricattano l’India moderna - DANTEWADA — Dantewada sotto il monsone perde di colpo tutti i suoi colori, come se la città fosse presa a frustate dalla natura da cui è avvolta. L’altra notte i maoisti le hanno tagliato i ponti alle spalle lungo l’arteria verso Calcutta che viene da Hyderabad e Mumbai, le metropoli dell’elettronica e degli affari. Quando è così, l’India resta spezzata in due su questo quadrilatero di giungla e strade sassose. Neanche fossero fossili di un’epoca andata, i guerriglieri sono risbucati fuori dalla foresta per far saltare un ponte e abbattere degli alberi sulla via che collega lo Stato del Chhattisgarh, di cui Dantewada è il capoluogo, con l’Andhra Pradesh. Anche quando le sue strade sono aperte, questo è uno sciatto borgo rurale a undici ore dal primo aeroporto. Nella via centrale le vacche, solo loro sacre e intoccabili, pascolano con la solita flemma fra la spazzatura e nelle fogne. Il resto è immobile. Il monsone infligge il suo coprifuoco su quella che da oltre un anno è diventata la capitale indiana della guerra civile. Nel giro di qualche ora anche i maoisti impongono il loro, che da queste parti tutti chiamano naxal bandh: una via di mezzo tra uno sciopero generale e un divieto assoluto di circolazione per le campagne, imposto per due giorni su milioni di contadini tribali che sopravvivono nelle zone più remote dell’India centro-orientale. I negozi chiudono, i risciò e i bus restano fermi nei piazzali, persino il lentissimo treno che porta il ferro delle miniere del Chhattisgarh verso i porti del Golfo del Bengala, e da lì in Cina, non viaggia più: l’ultima volta che sfidò un naxal bandh, fu fatto deragliare da una mina. I maoisti o «naxaliti» (da Naxalbari, il villaggio del West Bengal da cui il loro movimento partì nel 1967) sono i fossili viventi di questo conflitto. Fossili, perché resistono nelle foreste da quasi mezzo secolo e ricordano catastrofi relegate ai libri di storia come la calata dei khmer rossi dalle giungle della Cambogia 40 anni fa. Vivi, perché a loro modo stanno vincendo. In queste terre degli adivasi, i tribali che stanno all’India come i Sioux stavano all’America o gli aborigeni all’Australia, i maoisti seminano ogni anno più morti, conquistano più villaggi, raccolgono più uomini, più armi e più consensi. Quando si parla con gli adivasi nei villaggi intorno a Dantewada o fra i rifugiati nell’Andhra Pradesh, l’ostilità verso i «naxaliti» si riscontra di rado: quasi solo fra gli ex possidenti ai quali i maoisti hanno tolto qualche acro di terra, o qualche grammo d’oro, per redistribuirlo ai poveri del villaggio. Ma inutile chiedere a questi tribali chi fosse Mao, non hanno mai sentito questo nome. Per loro «maoisti» viene dalla parola «maor» che in Koya, la lingua degli adivasi, significa semplicemente «i nostri». Come i khmer rossi, i naxaliti dell’India hanno truppe analfabete di nativi della giungla e capi con la laurea o il dottorato. Come loro si danno pseudonimi di battaglia, i soli ammessi in una struttura piramidale con al vertice un politburo e un comitato centrale. E come i fanatici di Pol Pot, si nascondono in basi attrezzatissime nella foresta e tengono segreta l’identità del loro leader supremo. Nel frattempo contano sempre di più. Sono ormai circa ventimila nella fascia tribale che va dal West Bengal all’Andhra Pradesh, quasi un terzo del subcontinente, per un conflitto che ha fatto nel 2009 mille morti e già circa 800 nei primi sei mesi di quest’anno. Qui in Chhattisgarh, il cuore dell’insurrezione, iniziarono negli anni 80 tendendo imboscate alla polizia armati di archi e frecce per poi saccheggiarne i fucili automatici. Continuano a farlo: ad aprile hanno ucciso 76 paramilitari e a fine giugno altri 26, mutilandoli e smembrandoli con le mani da morti. Ma oggi, in molte aree intorno a Dantewada, esercitano direttamente il potere politico: le chiamano aree «liberate» o sotto controllo, e assomigliano a una società al rovescio. E non solo perché questa è l’altra faccia dell’India del software e dei grattacieli di Bangalore o di Mumbai. In un villaggio come Gumiapal, un gruppo di capanne di giunchi nella foresta in fondo a un sentiero a venti chilometri da Dantewada, senz’acqua corrente né elettricità, i maoisti si presentano in ordinate divise verdi e rappresentano l’autorità. Lì lo Stato non ha accesso e la scuola, il solo edificio di mattoni, è chiusa da un catenaccio. In zone così sono la polizia e i paramilitari governativi di un’organizzazione chiamata «Salwa Judum» («Caccia purificatrice») ad agire, in borghese, da terroristi: due mesi fa hanno fatto un’incursione a Gumiapal, hanno ucciso i primi due ragazzi che hanno trovato nel villaggio, hanno incendiato la casa di un uomo chiamato Miriam Guddi e sono fuggiti sparando. Dalle testimonianze raccolte in decine di incontri nella zona, si direbbe che sono soprattutto i poliziotti e gli uomini Salwa Judum ad attaccare i villaggi degli adivasi, uccidere, incendiare, saccheggiare e violentare. Solo nel distretto di Dantewada, gli abitati rasi al suolo dal Salwa Judum sono centinaia. «Attaccano noi perché non riescono a raggiungere i maoisti» dice Miriam Guddi, il vecchio di Gumiapal a cui è stata bruciata la casa nell’assalto di due mesi fa. Guddi non ricorda la propria età, ma pensa di avere idee chiare sul conflitto. «I naxaliti vivono nella giungla a un chilometro da qui, partecipano armati alle nostre assemblee, proteggono le nostre vite e i nostri diritti sulla foresta contro i latifondisti e le grandi società minerarie. Sono nel giusto, è la polizia che ha torto». Il sistema dei naxaliti sembra in effetti attentamente studiato per conquistare il cuore degli adivasi. Dove controllano il territorio impongono una tassa sotto forma di alimenti, ma sono rigorosamente vegetariani per scoraggiare fra le truppe il saccheggio di bestiame. Nella loro paranoia rivoluzionaria, mutilano e uccidono i sospetti informatori dello Stato; ma nei villaggi «liberati» costituiscono sempre consigli e tribunali del popolo, ai quali chiedono l’assenso prima di ogni esecuzione. Quando conquistano un’area consegnano alle famiglie del posto archi, frecce e un’arma da fuoco (spesso fabbricata a mano da pezzi di vecchie auto) e formano una «giovane milizia»: gli armati maoisti del villaggio, uomini o donne insieme, prima cellula dalla quale entrerà nel vero e proprio addestramento naxalita solo chi, per cinque anni, dimostrerà di non aver abusato del proprio potere. I maoisti che violentano vengono passati per le armi, quelli che bevono o fumano sono puniti. La terra dei ricchi viene espropriata (e questi, come racconta infuriato uno di loro, Mangura Kunjam, entrano nel Salwa Judum): ma vista la piaga sociale della mahuà, la grappa fermentata dai fiori di un albero, i tribali che eccedono nel bere non avranno diritto alla redistribuzione. Neanche i maoisti in realtà fanno eccezione sulle abitudini locali: sono corrotti. Si dice che Essar Steel, un gruppo minerario indiano che ha investito 1,5 miliardi di dollari per il ferro nel Chattisgarh sudorientale, paghi una forte tangente per evitare la loro furia distruttrice e anti-moderna. Il suo impianto nella giungla è perfetto, colossale, all’interno quasi lussuoso. Fuori invece la strada di terra dei villaggi intorno è diroccata, allagata dal monsone; l’acqua del fiume lì accanto, densa e rossa, rovinata dalla miniera, è ormai inutilizzabile per le risaie. Mangel Kunsam, un adivasi di 19 anni della zona, siede sulla sua strana moto lungo il fiume guardando la corrente. Ha degli occhiali da sole sulla fronte e un po’ di brillantina nei capelli, peserà al massimo 45 chili. Dice che i naxaliti hanno tutte le ragioni del mondo. Sta per unirsi a loro? «No, non vedo proprio come possano vincere».