Tommaso Labranca, Libero 19/8/2010, 19 agosto 2010
BEATI I TORMENTONI CHE CI SALVANO DALL’IMPEGNO POLITICO
Non si è ancora capito come mai l’estate debba essere la stagione in cui la musica può essere dichiaratamente brutta. Il livello di certe produzioni non è eccelso nemmeno nel resto dell’anno, ma in quei tre mesi assolati si ascoltano con orgoglio non celato certi risaputi zumpa-zumpa ai quali affidare ricordi balneari non meno banali. Queste composizioni sono a tal punto una sofferenza per le orecchie che le si bolla come tormentoni.
Le zanzare sono un tormento estivo e si fa di tutto per evitarle. Le produzioni di Bob Sinclar, dj francese da villaggio-vacanza spacciato per avanguardia elettronica, non sono meno fastidiose. Ma nessuno le evita, anzi molti ne godono con una gioia nel dolore che ricorda i migliori protomartiri.
Ci ricorderemo del 2010 per un brano di due australiani, Sylvester Martinez e Johnson Peterson, che sotto il nom de plume di Yolanda Be Cool hanno invaso l’Occidente con We No Speak Americano, furbissima produzione che con un computerino, un software musicale e un vecchio 78 giri di Renato Carosone ha prodotto un rientro economico pari al Pil del Rwanda. Non è certo una novità: sono ormai diversi anni che la musica nuova viene creata rubando vecchia musica, campionando suoni o frasi da canzoni di successo e ripetendo quei frammenti su una base ritmica. Sono lontani i tempi in cui Afrika Bambaataa e altri hiphopper delle origini rubavano note ai Kraftwerk (che si imbestialivano) o quando gli Usura si limitavano a risuonare un disco dei Simple Minds spacciandolo per loro. Oggi il gioco è dichiarato e per ogni furto si pagano pochi centesimi di diritti d’autore, quindi perché rovinarsi la testa nel creare qualcosa di nuovo? Chi ha una certa età riconosce in quei frammenti briciole di madeleine, ma nessuno provvede ad avvertire le nuove generazioni che si tratta di roba vecchia. Che quel ma-
ma-ma-mah a ripetizione su cui è costruito Poker Face di Lady Gaga aveva un seguito che faceva Ma Baker, she never could cry... ed era un brano dei Boney M già vecchio nell’anno in cui l’esibizionista cantante nasceva.
È proprio il patrimonio della disco music a essere depredato. Sia con campionamenti e accenni, come nel caso di Robbie Williams che costruisce tutto Rock DJ sul basso di It’s Ecstasy di Barry White o che cita apertamente I Will Survive di Gloria Gaynor in Supreme. Sia con scimmiottamenti, come i falsetti degli odiosi Scissor Sisters, che emulano gli stilemi della disco solo per far notare quanto sono cool loro e quanto erano trash gli
idoli degli anni Settanta. Ma la disco music era un fenomeno serio, ben diverso dalla musica che si balla oggi e che non può fregiarsi di quel nome. Nel corso degli ultimi dieci anni, soprattutto negli anni Novanta, la dance si è vagamente instupidita. Tant’è che per distinguersi dalla massa di brani tecno dal ritmo binario che invitano a saltellare avanti e indietro qualche critico ha inventato la sigla idm (ossia Intelligent Dance Music) per etichettare le produzioni di dj e musicisti più preparati. La disco music era una cosa enorme, univa melodia e ritmo, pulsazioni che ti spingevano a ballare e orchestrazioni arrangiate con incredibile abilità. Ma da noi non l’hanno capito in molti. L’Italia, anche quella che nei rivoli dei mille revival si è messa a esaltare i Tavares, ha sempre odiato la disco music e ha coinvolto anche quell’innocente stile musicale nel minuetto politico degli anni Settanta.
Fenomeno “di destra”
Allora l’errore diffuso era considerare la disco espressione della destra. Ma la disco era apolitica, come apolitico era il rock, almeno in America. La lotta era esclusivamente musicale e familiare, tra i fratellini che ballavano i Bee Gees e i fratelloni che erano ancora legati al rock. Al massimo si lottava a colpi di adesivi, come quel Disco Sucks (la disco music fa schifo) che i fan del vecchio rock attaccavano sulle auto.
Anche dire che la disco music fosse apolitica è un errore, ma questo lo vedremo dopo. Per ora concentriamoci su un’altra convinzione sbagliata: ossia, che i cantautori, veri paladini del movimento antidisco italiano, fossero espressione della sinistra. Certo, c’erano cantautori di sinistra, quelli storici, ma erano ascoltati e invidiati anche dai ragazzi di destra. Nei Settanta, la destra non amava la discomusic. Troppo lontana dai suoi punti di riferimento e di impegno. Troppo libertina, in
fondo, con i suoi scenari di amore libero, la confusione di razze. Oggi si fa coincidere certa destra con il Billionaire e si tende a credere a posteriori che Tony Manero portasse la camicia nera sotto l’abito bianco come omaggio alle adunate oceaniche. Errori su errori. Silvio Berlusconi è un romanticone figlio di Bruno Martino e dei night, non di KC and the Sunshine Band e dello Studio 54. Anche se è possibile immaginarselo in abito bianco e camicia con colletto simile a un deltaplano, ma sei o sette anni dopo, con un ritardo pauroso rispetto alla moda che già aveva superato il punk e i New Romantic. La politica e l’attenzione ai trend di costume sono parallele che non
si incontrano nemmeno all’infinito. Negli anni Settanta anche se eri iscritto al Fuan potevi essere conquistato da certi episodi cantautorali belli, armoniosi, melodici, perfetti nella costruzione.
C’era Massimo Morsello, soprannominato “il De Gregori nero” per dichiarate affinità con l’ermetismo del Principe. C’era Fabrizio Marzi che sottolineava come il suo tono di voce fosse accostabile a quello di De Andrè. E in tempi più recenti, Sergio Borsato, voce della Lega, ha cantato Camicia verde con accordi e pizzicamenti delle sillabe che ancora richiamano fin troppo De Andrè. Sia detto con dolore, persino l’attuale musica tormentona non ha
saputo fare a meno del Ligure e Gabri Ponte qualche anno fa gli ha distrutto Geordie, quello impiccato con una corda d’oro. Destino che molti avrebbero voluto riservare allo stesso Ponte.
Una produzione nobile dal punto di vista della scrittura musicale e legata profondamente alle proprie convinzioni: quella era la musica cantautorale alla quale tendevano ai tempi sia la destra sia la sinistra. In nessuno degli schieramenti c’era posto per la disco music. Che non l’ascoltavi mai su Radio Popolare e tanto meno su Radio University, radio milanese vicina ai circoli universitari di destra fondata nel 1976 e diretta da un giovane Ignazio La Russa. Nel 1976, quando in classifica in Italia c’erano classici della disco music simili agli attuali tormentoni. Costruiti su pochi accordi e su un solo verso ripetuti all’infinito, come Fly Robin Fly delle Silver Convention. O già citazionisti come l’antologico The Best Disco in Town delle Ritchie Family.
La disco music era quindi l’espressione degli apolitici, il genere musicale dei figli di coloro che avevano fatto la fortuna dei Sanremo e delle Canzonissime. Forse la consideravano di destra perché proponeva immagini opposte allo straccionismo e alla bruttezza delle donne di sinistra in zoccoloni e gonnelloni.
Suoni proletari
Eppure la disco music era la scelta del proletariato. Tony Manero era figlio di famiglia proletaria, con padre adirittura disoccupato (cosa non ci avrebbero tirato fuori i 99 Posse?). In Italia l’arte ne avrebbe fatto un terrorista. In America ne hanno fatto un’icona della danza. Nelle discoteche ci sono sempre andati i proletari apolitici. Anche oggi a ballare i tormentoni all’Hollywood non ci vanno i rampolli dell’aristocrazia. Ci vanno ancora quelli con il sogno di passare dall’altra parte del ponte. Da Brooklyn a Manhattan, passando per Corso Como.
Nonostante i tentativi di “far ballare pensando”, come Alors on danse dell’afro-belga Stromae, i tormentoni estivi nascono con il puro scopo di divertire. E non è il modo di creare un’oasi di distrazione all’interno di una esistenza di impegno. È la celebrazione definitiva della cancellazione dell’impegno che, per fortuna, non esiste più. C’è chi cerca di far passare per impegno certe sacche di fiacca resistenza a sinistra, dove si raccolgono le stucchevolezze di Fiorella Mannoia o le zuccherosità di Jovanotti. Ma il pubblico non le recepisce come tali e le alterna in un fluire non ideologicizzato che va dai Black Eyed Peas ai Muse passando per Mika. Tutto ha lo stesso valore, magari ridotto a una fruizione limitata nel tempo perché nessuno più pare voler lasciare materiale ai posteri, pur rubando parecchio da quello che si è trovato in eredità. La cosa mi fa anche piacere, benché a volte possa apparire critico nei confronti della libertà musicale in cui sguazzano gli adolescenti odierni. Ma è solo per invidia. Ho una lunga anamnesi di frustrazioni musicali, sono passato per anni troppo lunghi di ostracismo sociale perché ascoltavo gli Abba e non Claudio Lolli. E adesso guardo con un po’ di astio chi non deve giustificare se gode dell’acqua fresca di Mads Langer.
Mi consolo pensando che in questo scenario di dissoluzione delle contrapposizioni la disco music ha sferrato il colpo e ha conquistato la poltrona più potente del mondo. Ora, però, posso finalmente affermare che la disco music ci ha preso in giro tutti. Si è fatta spacciare per simbolo del disimpegno, dell’apolitica.
Pensiamoci: la disco music migliore era fatta da afro-americani, con suoni che molto dovevano alla grande tradizione Motown. Erano neri che non si piangevano addosso, erano ricchi come Barry White, sexy come Donna Summer, elegantissimi come gli Chi. La disco music non divideva, ma univa. Neri e bianchi e gialli ballavano tutti lo stesso ritmo e apparivano sulle copertine chiusi nel loro luccicante mondo plasticoso dove la notte non finiva mai e non c’erano tensioni sociali, tanto che la nera Donna Summer poteva cantare in perfetta armonia con la bianca ed ebrea Barbra Streisand. C’è tutto: neri ricchi, mondi che si abbracciano, aperture sociali. La disco music oggi governa il mondo attraverso Barak Obama, un Tony Manero vagamente afro che però ce l’ha fatta. E con un preciso programma politico: «Get down on it! Le freak c’est chic! I feel love! That’s the way, ah-ah, I like it... Yes, we can!»