Maximilian Cellino Morya Longo Walter Riolfi Marco Valsania, Il Sole-24 Ore 17/8/2010;, 17 agosto 2010
LA RICETTA PER USCIRE DALLA GRANDE CRISI: CREARNE TANTE ALTRE
Di bolla in bolla abbiamo trascorso gli ultimi 12 anni tra euforia e depressione. L’euforia ce la procurava la bolla man mano che si gonfiava. La depressione ci assaliva tutte le volte che la bolla scoppiava: come dopo la mania di Internet nel 2000; dopo che i prezzi delle case, in America, in Gran Bretagna, Spagna o in Australia, ricominciavano a scendere dal 2007; dopo che tutta la liquidità che s’era creata in anni di euforia finanziaria era diventata carta straccia tra il 2007 e il 2008. E la depressione che ci hanno procurato le ultime due bolle ha rischiato di non essere solo psicologica, perché da quella che è stata definita la peggior recessione dagli anni Trenta a una nuova Grande Depressione il passo era breve. Secondo qualche economista, non è detto che non possa ancora accadere.
Alan Greenspan, il presidente della Fed che per quasi 20 anni ha guidato la politica monetaria americana e condizionato quella di mezzo mondo, ha sostenuto che le bolle speculative non si possono prevedere e tanto meno curare. Può darsi che abbia ragione, e dello stesso parere è anche il suo successore Ben Bernanke. Forse è un caso, ma le ultime 3 bolle sono scoppiate o, quanto meno maturate, proprio durante il mandato di Greenspan. E non può essere attribuito alla sorte se gli ultimi 20 anni sono stati particolarmente critici per la finanza internazionale: in balia dei derivati, con il culto del debito, anzi della leva finanziaria come lo si definiva per dargli una connotazione virtuosa. Ma un ventennio (ed oltre) in cui la finanza ha predominato su tutte le attività industriali e commerciali, ha potuto affermarsi perché sono mancate le regole e agli alchimisti (ingegneri finanziari nel lessico di Wall Street) sparsi nelle banche d’affari e commerciali s’è lasciato fare di tutto: in nome del profitto, del valore per l’azionista e persino della finanza "democratica", quella dei mutui subprime.
Se Greenspan, nel 1996, invece di limitarsi a denunciare l’esuberanza irrazionale delle borse avesse tre anni dopo ribadito la demenzialità delle quotazioni dei titoli Internet e tecnologici e intrapreso qualche azione per frenare l’eccessiva liquidità dei mercati, forse lo scoppio della bolla sarebbe stato meno fragoroso. Se nel 2005 anziché chiamare «schiuma» l’effervescenza del mercato immobiliare Usa l’avesse definita senza eufemismi, e se invece di lamentare la stranezza di alcune cartolarizzazioni di mutui e la generica pericolosità di certi derivati avesse intrapreso qualche misura per circoscrivere il fenomeno, forse si sarebbe potuto limitare i danni.
Cina, 65 milioni di case invendute
Di bolle se ne sono viste crescere e scoppiare tante fin dal XVII secolo. Altre ne vedremo in futuro e qualcuna probabilmente ce l’abbiamo già sotto gli occhi: quella immobiliare in Cina, quella sull’oro e forse pure sui titoli di stato. Pur concordando con Greenspan che una bolla si riconosce solo quando scoppia, in tutti e tre i casi si possono leggere i sintomi di una anomala rincorsa dei prezzi.Nel caso cinese c’è anche una sorta di riconoscimento ufficioso. La settimana scorsa l’autorità bancaria di Pechino, nel proporre un nuovo stress test per gli istituti di credito del Paese, ha suggerito uno scenario "estremo" in cui i prezzi delle case potrebbero crollare fino al 60%. Se il prezzo degli appartamenti costruiti in gran numero nei palazzoni di Pechino e Shanghai dovesse crollare del 60%, rischierebbero il fallimento quasi tutte le società sponsorizzate dallo stato e con esse le banche che le hanno finanziate.
Le indicazioni dell’autorità bancaria sono un’ammissione implicita che esiste una bolla speculativa.
S’è costruito oltre ogni ragionevole criterio nelle città cinesi e lo s’è fatto perché gli immobili sono l’attività che rende più di tutte. I prezzi delle case sono triplicati in pochi anni e un piccolo appartamento a Shanghai costa oltre 200mila $, quando il reddito medio di una famiglia è di 4mila $ all’anno. I terreni, attorno a Pechino, sono saliti del 750% dal 2003 e metà del rialzo è avvenuta negli ultimi due anni. Un numero crescente di municipi ha creato «veicoli d’investimento » che s’indebitano presso le banche (possedute dallo stato) per costruire infrastrutture e immobili. Solo nel 2009 le banche hanno prestato 1.400 miliardi di $, gran parte dei quali sono finiti in case e terreni. Il risultato è che, come racconta il South China Morning Post, vi sono 65 milioni di abitazioni vuote sparse nelle maggiori città del paese.
Non ricordano nulla quei «veicoli d’investimento»? Ma certo i Siv e i Conduit americani, quelle società finanziarie fuori bilancio con cui banche, assicurazioni e holding varie s’indebitavano per emettere e commercializzare mutui casa e anche immobili. Travolte dalla crisi del 2007-2009 nei paesi occidentali, ora queste fantasiose costruzioni contabili proliferano e trionfano in Cina. Vuoi vedere che si ritrovano anche i medesimi prodotti dell’ingegneria finanziaria anglosassone, come i Cdo, i Clo, i titoli salsiccia di cui s’è parlato nella seconda puntata (8 agosto)? Eccoli infatti: cartolarizzazioni su crediti per 5.900 miliardi di yuan ( quasi 900 miliardi di $) solo nel primo semestre 2010, il 28% in più delle cifre ufficiali, secondo uno studio di Fitch. Buona parte di questi crediti sono stati impacchettati e reinpacchettati in Cdo da veicoli finanziari creati fuori bilancio, da una dozzina di grandi banche cinesi, per essere venduti a investitori d’ogni sorta, compresi i piccoli. «In un clima di così scarsa trasparenza –annota l’agenzia di rating – questi comportamenti potrebbero portare a una considerevole riduzione della liquidità o addirittura a una crisi del credito».
Oro e bond, che passione!
Visto quello che è successo negli Usa o in Gran Bretagna, come si fa ad escludere un nuovo crack cinese? Essendo in quel paese tutto controllato dallo stato ed avendo lo stato cinese meno debiti delle nazioni occidentali, possiamo aspettarci un immenso salvataggio pubblico dell’economia. Certo, ma con quali conseguenze sulla crescita mondiale?
Al confronto,meno pericolosa appare la bolla sull’oro: in questo caso a rimetterci dovrebbero essere coloro che hanno investito a 1.250 dollari (+70% in 18 mesi) nella convinzione che quel metallo fosse l’unico bene rifugio della Terra.E invece le quotazioni sono salite, non solo perché si cercava di scappare dalle azioni e dai bond greci, ma anche perché a forza di accaparrarlo ha finito per diventare una rarità. Di titoli di stato, invece, ce n’è una quantità enorme in giro e ancor di più ce ne saranno nei prossimi anni poiché i debiti sovrani, dopo la crisi finanziaria e la recessione, sono destinati ad esplodere. Quello americano potrebbe superare abbondantemente il Pil e diventare in termini relativi più pesante di quello italiano (si veda la terza puntata dell’11 agosto). A dispetto di un’offerta crescente, tutti lo comprano e i rendimenti dei decennali sono crollati dal 4% di 4 mesi fa al 2,8%. Quelli dei titoli a due anni (0,51%) sono ai minimi da sempre. Anche il Bund tedesco offre appena il 2,5% e non si ha ricordo di rendimenti così bassi nemmeno nel corso delle peggiori recessioni.
Gli investitori sostengono che Bond e Bund sono un investimento sicuro. Ma a ben guardare tutta questa euforia ricorda un poco la corsa ad accaparrarsi i bulbi di tulipano nell’Olanda del 1620-30 o la smania per le azioni Internet di 11 anni fa. I titoli di stato si acquistano perché c’è incertezza sull’economia, ribattono alcuni investitori. Se davvero fosse così, si starebbe profilando la peggior recessione degli ultimi cento anni. E se fosse così, perché mai starebbero allegramente salendo le borse, come sta avvenendo da inizio luglio? Forse che la bolla si stia invece gonfiando a Wall Street?