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 2010  agosto 17 Martedì calendario

IL DECLINO DELL’IMPERO USA? PER ORA È UN FALSO PROBLEMA

Il potere internazional e , spiega Joseph Nye in un saggio che verrà pubblicato nei prossimi mesi, è la capacità di un Paese di ottenere i risultati che vuole: con la forza (hard power), con la persuasione (soft power) o con una strategia combinata intelligente (smart power). Nel mondo del 21˚secolo, gli Stati Uniti hanno ancora un potere dominante; ma cominciano a perderlo a favore di altri attori globali, la Cina anzitutto. La domanda è quella che brucia dalla crisi finanziaria del 2008: è cominciato il declino americano?

Joseph Nye risponde di no. Vedere nella Cina la nuova America, e nell’America l’Impero britannico di un secolo fa, significa adottare analogie storiche poco convincenti. Anche perché il ciclo dell’ ascesa e declino delle nazioni ha perso la linearità di un tempo: il potere, oggi, è ancora unipolare in campo militare (gli Stati Uniti resteranno per decenni davanti alla Cina), è già multipolare in campo economico (con il «ritorno» dell’Asia alla posizione determinante che deteneva due secoli fa) ed è frammentato e diffuso in quella dimensione transnazionale che sfugge largamente al controllo degli Stati.

Calma, quindi, prima di parlare di declino americano, come fa da parecchio lo storico Niall Ferguson, secondo cui il segnale decisivo del destino britannico degli Stati Uniti è l’esplosione del debito: gli imperi sono sempre finiti così.

Una forte dose di pessimismo colora ormai la discussione americana sul futuro del proprio Paese: non sarà il declinismo puro e duro del dibattito europeo, ma è una sfiducia diffusa. La ripresa economica è ancora anemica e soprattutto non genera nuovi posti di lavoro. Su Obama — la ex speranza — sembra esistere una grande rimozione, in attesa di elezioni di mid-term (novembre prossimo) che i democratici si aspettano di perdere pesantemente. In una sett i mana p assataal campus d i Aspen, in Colorado, ho sentito nominare Barack Obama un paio di volte. E Condoleezza Rice, in un vivace dibattito con Madeleine Albright, ha rigirato il coltello nella piaga: il vero nemico dell’America non è la Cina — perché la Cina, questa la tesi di Rice, non ha un sistema politico che le possa permettere di eccellere nell’epoca dell’economia dell’informazione. Il vero nemico è interno, siamo noi stessi: una nazione che non investe più abbastanza nelle infrastrutture e nell’istruzione, in crisi fiscale potenziale e con un sistema politico così polarizzato da impedire decisioni razionali.

L’America sta combattendosi da sola? L’Aspen Strategy Group — il gruppo tradizionale di riflessione strategica, oggi guidato da Nick Burns, ex sottosegretario di Stato e ambasciatore alla Nato — discuteva quest’anno di Afghanistan: la guerra che l’America non ha ancora perso (opinione prevalente) ma che rischia di perdere (timore prevalente) se il fronte interno non concederà abbastanza tempo a David Petraeus. Il tema sottostante, tuttavia, era l’altro: l’auto-analisi in corso sul destino degli Stati Uniti.

Né Albright né Rice, le prime due donne ad avere guidato la diplomazia americana, hanno avallato, nel loro show congiunto ad Aspen, le tesi decliniste. Secondo Madeleine Albright, la capacità di costruire alleanze e coalizioni continua e continuerà a fare la differenza fra gli Stati Uniti e la Cina: la perdita di potere americana è relativa, non assoluta. Per Rice, gli Stati Uniti stanno pagando i costi (necessari) della insicurezza post 11 settembre. Ma la competizione del secolo è fra sistemi politici: democrazie occidentali versus autocrazie di mercato. E qui, per tutti i problemi che può avere l’America, il potere di attrazione delle democrazie liberali resterà prevalente.

Sarà l’evoluzione interna delle due potenze del secolo — prima della politica estera — a fare la differenza. Il problema, ben noto, è che i destini del più grande debitore del mondo, gli Stati Uniti, e del suo più grande creditore, la Cina, appaiono a questo punto intrecciati. Come spiegano in un libro recente Stephen Cohen e J. Bradfor DeLong ( The end of influence), quando una grande nazione perde il controllo dei soldi perde anche influenza. E insieme perde libertà d’azione. Dal secondo dopoguerra in poi, l’America ha potuto contare sull’esorbitante privilegio del dollaro, secondo la famosa espressione di de Gaulle. Ma gli squilibri alla base dell’economia globale — un’America che ha funzionato come locomotiva della crescita asiatica, importando più di quanto esportasse, consumando più di quanto risparmiasse — hanno finito per indebolirla. Il privilegio del dollaro (la possibilità illimitata di indebitarsi) si è rivelato nel tempo, per gli Stati Uniti, sia una benedizione sia un costo: una componente chiave del potere americano ma anche la fonte di una sua parziale erosione. Anche per il grande creditore, d’altra parte, la vita non è facile: difendere il dollaro è diventata, di fatto, una priorità ineludibile della Cina.

Se questa è la nuova dinamica del potere internazionale, ridurre gli squilibri economici globali è interesse essenziale di un’America che voglia restare dominante; ma che è più condizionata — in casa e fuori — di quanto sia mai stata dal 1945 in poi. Un contesto difficile, che gli Stati Uniti sapranno affrontare solo lasciandosi alle spalle la doppia sindrome di cui discutono, nell’estate fredda di Aspen, Albright e Rice: l’illusione dell’onnipotenza, la psicosi dell’ impotenza. Per le due ex segretario di Stato, l’America è già passata dal primo errore. Oggi rischia di cadere nel secondo.