Fabio Monti, Corriere della Sera 17/8/2010, 17 agosto 2010
MAZZOLA: «PENSAI DI DARMI AL BASKET»
Essere figli d’arte non è mai un privilegio. Lo sa bene Sandro Mazzola, il goleador dell’Inter euromondiale, quattro scudetti, due Coppa dei campioni e due Intercontinentali, 565 partite e 158 reti segnate in nerazzurro, in una carriera iniziata il 10 giugno ’61 e conclusa il 3 luglio ’77. Ha vinto anche in nazionale (70 presenze, 22 gol): nell’unico titolo europeo conquistato dalla nazionale italiana c’è anche la sua firma (10 giugno ’68, 2-0 in finale alla Jugoslavia). Sandro Mazzola nasce a Torino l’8 novembre ’42. Suo padre è Valentino: il club granata lo ha appena acquistato dal Venezia. Secondo Boniperti, che, da juventino, ha giocato contro di lui dal ’46 al ’49, «è stato il più grande giocatore italiano degli ultimi 70 anni». Valentino è il primo esempio di calciatore universale; maglia numero 10, sa essere ovunque e fare tutto. Il Grande Torino vince cinque scudetti consecutivi; Sandro Mazzola e suo fratello, Ferruccio, accompagnano il padre agli allenamenti: «Il ricordo che ho di lui era quello di un gigante che mi teneva per mano». Quel Torino finisce a Superga il 4 maggio ’49; l’aereo che riporta a casa la squadra da Lisbona si schianta contro la Basilica. Non si salva nessuno. A sett e annine mmeno compiuti, la vita di Sandrino, diventa crudele. Mazzola, con la mamma e il fratello, tornano a Cassano d’Adda, dove era nato Valentino, prima di trasferirsi a Milano. Un anno in collegio «dove non volevano che giocassimo a pallone» e il calcio sarebbe una storia archiviata se non fosse per le partite all’oratorio. Ma irrompe in casa Mazzola, Benito Lorenzi. Classe 1925, attaccante nell’Inter e migliore amico di Valentino in nazionale. Dopo molte i nsistenze, convince Sandro a provare per l’Inter. È il ’55, il provino avviene sul campo di via Sarfatti, maglia numero7, sottolo sguardo di Giovanni Ferrari, campione del mondo con l’Italia, scudetti con Juve e Inter. Sandro ha 13 anni, è abbastanza piccolo e magrissimo. «Entrai nello spogliatoio e mi trovai di fronte Bruno Bolchi: alto 1,84, lo chiamavano Maciste». Provino superato, nonostante lo scetticismo della madre («a lei interessava solo il diploma da ragioniere e non è mai venuta a vedermi allo stadio»). Ma i problemi restano: la leggenda paterna pesa come un macigno e c’è la concorrenza del fratello, «all’inizio più bravo di me, nel dribbling e nello scatto. Ogni volta che giocavo con i ragazzi dell’Inter la gente commentava: l’è minga bun, non è suo padre. Non andrà da nessuna parte. Magari lo dicevano in due, ma a me sembrava un coro di mille persone. E non riuscivo a giocare come avrei voluto». Per questo, a 15 anni, Mazzola va a provare per l’ Olimpia Borletti, la squadra di basket di Milano. È stato il momento in cui il calcio ha rischiato di perdere uno dei suoi più grandi campioni. Il racconto di Mazzola: «Con me c’era anche Ongaro, che ha fatto strada nella pallacanestro. Pensai che il basket sarebbe stato uno sport più semplice per me, da playmaker me la cavavo bene. Vedevo il gioco, sapevo far girare la squadra e poi giocavo libero da ogni condizionamento. Potevo anche sbagliare qualcosa. Nessun paragone, nessuna battuta. Ho pensato seriamente di chiudere con il calcio, però quando è stato il momento di scegliere, ho ceduto al fascino dello sport più popolare». Ma i problemi non erano risolti: «Viene il momento di giocare al «Filadelfia», contro la squadra «De Martino», «Primavera» del Torino. È stata la peggior partita della mia vita, mai visto il pallone. Troppa emozione, nello stadio dove andavo con mio padre; troppa gente; troppi pensieri in testa, dopo l’abbraccio con il massaggiatore del Torino, l’unico venuto a salutarmi». La prima trasferta in aereo coincide con Portogallo-Italia juniores: «Mio padre era morto tornando da Lisbona, io cominciavo da là. Un viaggio d’inferno, nonostante il segretario della Figc, Borgogno, si fosse seduto vicino. La paura dell’aereo non mi è mai passata». Mazzola cresce bene, nell’Inter, nonostante un anno nella Milanese Libertas, squadra della Lega giovanile. Nel ’60, arriva Helenio Herrera. «Ma devo indossare ancora la maglia delle giovanili, che poi erano quelle ereditate dai titolari. Io avevo addosso quella di Lindskog e mi arrivava quasi alle ginocchia: quando pioveva, pesava 5 chili. Un supplizio». Che non lo ferma. Il 10 giugno ’61, è il giorno dell’esordio in A, a Torino, contro la Juve, quando Angelo Moratti decide di mandare in campo la «De Martino», per protesta contro la Figc: «La Juve vinse 9-1, Omar segnò sei gol, io uno, su rigore. In porta c’era Mattrel, che giocava in nazionale. Avevo il terrore di sbagliare, ma alla fine cambiai direzione e feci gol. L’esordio in A era un traguardo importante», ma non decisivo per trovare un posto da titolare. Il mago non lo vede e Nino Nutrizio, direttore della Not
te, scrive: «Se si chiamasse Pettirossi, giocherebbe nel Pavia» Il giorno della svolta è il 4 novembre ’62: Inter-Venezia. Se va male, per lui l’avventura in nerazzurro finisce. Invece vincono l’Inter (2-0) e Mazzola, anche se Herrera lo avvisa: «Oggi bene, ma per lei trovare il posto in squadra sarà molto dura». Invece il posto da titolare lo troverà fino al ’77 e a nemmeno 21 anni è già campione d’Italia. Dirà Enea Masiero, suo compagno nerazzurro: «Il primo Mazzola era immarcabile; scatto, dribbling, senso del gol. Un fenomeno». Mazzola segna due gol anche a Vienna, 27 maggio ’64, Inter-Real Madrid, finale di Coppa dei campioni. Finisce 3-1. Quando Puskas, il più bravo del Real, con Di Stefano, alla fine della partita, si avvicina a Mazzola, gli dice: «Questa è la mia maglia; tienila, perché sei degno di tuo padre». Non c’è più tempo per rimpiangere il basket.