Federico Fubini, Corriere della Sera 17/8/2010, 17 agosto 2010
«TRA 10 ANNI BATTERANNO ANCHE GLI USA»
Non è un caso se il partito comunista ha permesso agli scioperi in fabbrica di svilupparsi soprattutto alla Dongfeng Honda Automobile: impianti cinesi, datore di lavoro giapponese. La protesta-simbolo dei lavoratori della Repubblica popolare si è sviluppata in casa del grande avversario geopolitico. Ma segna una svolta che per Arvind Subramanian, del Peterson Institute for International Economics, traghetterà la Cina verso un’altra stagione.
Il sorpasso cinese sul Giappone durerà o anche Pechino rischia una bolla e un’involuzione come quella di Tokyo dopo il ’91?
«Penso che le tendenze attuali proseguiranno — risponde Subramanian, indiano in forza alla Johns Hopkins University di Washington —. E se la Cina mantiene questi ritmi nei prossimi 15 o 20 anni supererà anche gli Stati Uniti. E in parità di poteri d’acquisto, cioè tenendo conto dei diversi livelli dei prezzi, anche prima: nel 2020».
La Repubblica popolare non rallenterà, dato che non può investire a oltranza e che la popolazione sta invecchiando?
«È probabile. La Cina non sosterrà sempre tassi di crescita al 10% e oltre. La crescita della forza-lavoro frenerà e il Paese consumerà di più. Si passerà a tassi di sviluppo intorno al 7%, ma saranno sempre sufficienti per superare anche gli Usa».
Un’economia più forte in Asia in teoria è una buona notizia per tutti. Lo è anche per il Giappone?
«È una lama a doppio taglio. È positivo avere questo motore della crescita asiatica, che importa e attiva le catene globali di produzione. Ma per il Giappone la crescita cinese rende le materie prime più costose. E da un punto di vista politico e di sicurezza, il Giappone e il mondo intero dovranno gestire una nuova potenza con le sue ambizioni geostrategiche. Su questo in giro non c’è molta fiducia».
Intanto la Cina dà una lezione ai liberisti dell’Occidente e crea un modello: lo Stato è un gestore efficace delle imprese.
«Ciò che credo sia unico della Cina, è che lo
Stato dà sempre più spazio al settore privato ma si dimostra estremamente capace di gestire la politica industriale. Non credo sia un modello imitabile. È una specificità le cui ragioni affondano nella storia, nella disciplina dell’apparato comunista».
Riuscirà il partito a mantenere il controllo malgrado la crescente liberalizzazione dell’economia?
«C’è un costo politico per questo: la corruzione crescente, lo scontento nelle provincie. Ma nel complesso per ora sta riuscendo. In fondo anche in Giappone lo Stato si era dimostrato efficace nella gestione dell’economia, almeno fino agli Anni 80».
Poi per i giapponesi le contraddizioni sono esplose in modo dirompente. Accadrà lo stesso in Cina?
«In Cina le tensioni emergeranno in politica, per esempio sulla centralizzazione del potere nelle questioni fiscali o del welfare. Le provincie cinesi vogliono contare di più».
Perché funzioni un’economia complessa, l’informazione deve poter circolare. Ma il partito la limita. Come finirà?
«Negli ultimi 20 anni l’informazione si è sempre più diffusa. Il partito sta gestendo tutto in modo graduale, ho fiducia che la transizione verso un sistema più aperto avverrà mantenendo l’instabilità sociale al minimo».