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 2010  agosto 17 Martedì calendario

IL BALZO DELL’ECONOMIA CINESE: SORPASSATO ANCHE IL GIAPPONE

Storico sorpasso della Cina sul Giappone in termini di valori assoluti di Prodotto interno lordo. Nel secondo trimestre di quest’anno il Pil cinese ha toccato quota 1.339 miliardi di dollari, superando la ricchezza prodotta dai giapponesi, pari a 1.288 miliardi. Resta lontana la leadership degli Stati Uniti, con un pil di 14.598 miliardi di dollari. PECHINO — Da mesi, anzi da anni, il Giappone aveva sentito dietro di sé i passi sempre più vicini della Cina. L’ufficio statistico centrale di Pechino, lo scorso 21 gennaio, l’aveva annunciato: quest’anno l’economia della Repubblica Popolare supererà quella dell’arcipelago. Il 30 luglio era stata l’autorità monetaria della Cina a metterlo a verbale: siamo già diventati lase conda economiadel mondo dietro gli Usa, e tanti saluti a Tokyo. L’ammissione di ieri vale più di tutte, perché viene direttamente dall’esecutivo nipponico. Il Pil del secondo trimestre dell’anno è stato di 1.288 miliardi di dollari, al di sotto del dato cinese, che ha raggiunto 1.339.

La Cina va, il Giappone no. L’impatto simbolico dell’annuncio spazza via anche i tentativi di ridimensionare, contestualizzare, rimandare la resa a fine anno. Ci ha provato Keisuke Tsumura, alto funzionario del governo del democratico Naoto Kan: ha invitato a considerare che nel primo semestre il Giappone resta davanti, 2.578,1 miliardi di dollari contro i 2.532,5 di Pechino, e che «i conti sarebbe corretto e leale farli sul 2010». Poco da fare, l’incremento del prodotto interno lordo nipponico sul trimestre precedente si distacca di un niente dallo zero (0,1%) né il confronto con lo stesso periodo del 2009 brilla (0,4%). Il messaggio è passato, l’ascesa cinese ha messo insieme un altro record e le Borse di Shanghai e di Shenzhen hanno festeggiato con un più 2,1 e un 2,3%.

Il sorpasso chiude un’epoca. Il Giappone si era collocato alle spalle degli Usa nel 1968. La fenice rinata dalle ceneri atomiche di Hiroshima e Nagasaki aveva preso a volare, modello inarrivabile che nell’euforia degli anni Ottanta lasciava immaginare addirittura una non impossibile leadership economica mondiale. Invece l’assalto della Cina al cielo, con le sue proporzioni geografico-demografiche imparagonabili al senescente arcipelago, vendica secoli di incomprensioni e rancori alimentati da guerre e sangue, mai appianati da folate di vicinanza. Ancora adesso, rivela un sondaggio pubblicato con grande rilievo dal «China Daily», alla domanda «qual è la prima impressione quando sentite nominare il Giappone?», il 45,1% degli interpellati risponde: il massacro di Nanchino, 1937, che ieri i giornali cinesi ricordavano commossi.



Soltanto 5 anni fa il Pil cinese, con i suoi circa 2.300 miliardi di dollari, era la metà dell’economia nipponica, in un frangente in cui la crisi non si era ancora abbattuta sul mondo. Allora la Cina non aveva ancora sfoderato il suo pacchetto di stimolo da circa 580 miliardi di dollari, denaro che dall’autunno del 2008 è stato immesso vigorosamente nel suo sistema che, daori entatoal - l’export, vuole puntare allo sviluppo di mercato interno in grado di sostenere la crescita, obiettivo primario del segretario comunista Hu Jintao e del premier Wen Jiabao.

Pechino aveva sottratto nel 2009 alla Germania il primato tra gli esportatori del mondo e agli Usa il primato tra i mercati dell’auto. Eppure la torsione che la Cina sta tentando di imprimere a se stessa resta una sfida ciclopica, che il trionfale risultato di ieri non cancella. L’entità complessiva della ricchezza cinese resta un terzo di quella americana, la stampa statunitense punge Pechino sottolineando che il suo reddito pro capite la allinea al Salvador e all’Albania, dalle parti dei 3.600 dollari, un decimo circa rispetto al Giappone e sideralmente distante dai 46 mila dell’America. La Cina, come usano sottolineare i suoi leader, resta un Paese in via di sviluppo, e la sua reattività alle sollecitazioni della comunità internazionale resta incardinata su parametri tra i quali Pechino si muove con enorme prudenza. Così, se a giugno si annunciava che la Cina avrebbe allentato il vincolo della sua valuta con il dollaro, le speranze di una rivalutazione del renminbi sono rimaste tradite: solo più 0,4% dal 19 giugno. E poche speranze, se il viceministro del Commercio estero, Zhong Shan, dalle colonne del periodico di Partito «Qiushi» («Cercare la verità») avverte: «Il renminbi deve restare fondamentalmente stabile per sostenere il nostro commercio estero». Sorpasso o non sorpasso.

GRANDI MARCHI E BASSI COSTI, LA GARA TOKYO-PECHINO -
Mao Zedong cercava l’America. La voleva, racconta chi lo conobbe durante la marcia verso il potere, però l’America s’allontanò dalla Cina rossa. Il Giappone invece era stato annichilito dal nemico americano, ma l’occupazione avviò un intreccio durato a lungo. «Tokyo Boogie-Woogie/Rhythm. Wowie Wowie…/A song of the world. A happy song»: il successo del 1948 che gracchiava nelle radio sembra anticipare una storia promettente. Così, guardando all’America, senza distrazioni belliche o ideologiche, il Giappone cresce, e in piena guerra del Vietnam si mette alle spalle dell’America: seconda potenza economica. Fino a ieri.

Cina e Giappone, sentieri che si biforcano. Tokyo convive con gli americani (a volte con fatica, Okinawa insegna) e li studia. Nel dopoguerra il boss della Toyota, Eiji Toyoda, e il suo capo della produzione cercano di abbattere lo scarto di produttività tra le fabbriche Usa e le giapponesi. Si tratta di azzerare il muda, lo spreco, ed è questa «ricerca imperitura», ad esempio, che Michael Schuman («Il miracolo», edito da Tropea) considera una delle formule della vittoria nipponica sui mercati mondiali. La Cina, intanto, è incatenata a un’atroce vastità geografica e a disastri ideologico-umanitari in serie. I giapponesi esplorano l’America, piazzano prodotti, sofisticano la ricerca. Un signor Panasonic, Konosuke Matsushita, negli Anni 60 avvia l’esportazione di televisori negli Usa. Il Giappone produce bisogni e, insieme, gli strumenti per soddisfarli, tra cicliche chiusure protezioniste di Washington. La Honda, la Sony di Akio Morita, altri scrivono l’epopea di un Paese che conta su di sé. Il nucleare per l’energia, oliate dinamiche commerciali per le materie prime. In America cadono baluardi (la Universal Studios in mani nipponiche, la Mitsubishi che prende il Rockefeller Center), rinfocolando pregiudizi e ostilità. Mentre a fine 1978 Deng Xiaoping lancia le riforme in Cina, il Giappone avanza ancora.

Paradossalmente, quando nel 1991 esplode la bolla speculativa che ha alimentato il mercato immobiliare (e le aspettative) del Giappone, la nuova Cina denghiana si rimette in moto dopo lo stop di Tienanmen. E quando il Giappone s’impantana (’91-2001), la Cina corre. Deficit fuori controllo, inefficienze, invecchiamento della popolazione azzoppano il modello nipponico. Le altre tigri dell’Asia, come Taiwan e Corea del Sud, producono tecnologia affidabile e meno cara. La Cina, invece, dilaga sul fronte del lavoro a bassissimo costo e dell’export. Se occorre recuperare risorse, una costellazione di accordi con l’Africa (e Australia, Sudest asiatico, America Latina) mette a disposizione di Pechino materie prime ed energia. Il sistema autoritario non solo offre la stabilità che governi effimeri, a parte l’eccezione Koizumi, non garantiscono a Tokyo, ma dispone del territorio della Cina come di un teatro aperto a esperimenti.

Un gioco delle parti tra Pechino e Tokyo. La Cina dal Pil che sale a razzo comincia farsi valere in sede diplomatica e, all’uopo, mostra i muscoli. Il Giappone degli ultimi mesi tenta invece un approccio gentile. Quando aziende cinesi sbarcano in America, vedi la Lenovo che acquisisce la divisione computer di Ibm, non seducono. Sui giornali si leggono inviti a «non idolatrare le marche straniere», mentre il ministero del Commercio lancia campagne per promuovere il «made in China» (anche se è la Toyota a venire a Pechino a scusarsi per la débâcle dei suoi modelli). L’incrocio prosegue: yen forte e renminbi debole, la componentistica dell’intero arsenale tecnologico contemporaneo (da Apple alla Nokia) fatto dai cinesi e il Giappone in affanno. Ora il sorpasso annunciato nella gara del Pil. La Cina sorride. Ma sa che gli scioperi, le disuguaglianze di reddito, la bolla immobiliare, la devastazione ecologica, le aziende che delocalizzano sono tutti elementi pronti a raccontare una nuova storia.