Sergio Romano, Corriere della Sera 17/8/2010, 17 agosto 2010
L’ODIO E GLI AFFARI
Ogni gara ha le sue regole. Quella fra la Cina e il Giappone è fondata sul confronto tra il Prodotto interno lordo dei due Paesi. Se il gioco è questo, sembra oggi probabile che l’arbitro, alla fine dell’anno, proclami la vittoria della prima sul secondo. I dati del terzo trimestre dicono che il Pil cinese vale 1.339 miliardi di dollari contro 1.288 miliardi del Giappone. Ma se le regole cambiassero e il confronto fosse tra il Pil pro capite dei due Paesi, il Giappone trionferebbe sulla Cina, grosso modo, per dieci a uno. E se il confronto fosse tra il Pil della Cina e quello degli Stati Uniti, dovremmo constatare che il primo è circa un terzo del secondo.
Vi sono almeno due fattori, tuttavia, che rendono la gara fra Cina e Giappone particolarmente interessante. Il primo è economico e finanziario.
Il Giappone, da vent’anni, cresce poco e male, con qualche modesta impennata seguita da lunghi periodi di stagnazione. La Cina, invece, sembra avere superato brillantemente la fase peggiore della crisi, cresce impetuosamente, fornisce preziosi mercati alle industrie dei Paesi europei più intraprendenti (è il caso della Germania) e trascina con sé le economie asiatiche.
Il secondo fattore è politico e psicologico. Cina e Giappone vengono da una lunga storia di affinità e divergenze, scontri mortali e prestiti reciproci. Fernand Braudel notava che una delle caratteristiche più indicative di un popolo è il modo in cui si siede. Quelli che preferiscono le sedie costruiscono case e palazzi, fondano imperi, hanno il gusto e il genio della pubblica amministrazione. Quelli che preferiscono accovacciarsi sulle gambe incrociate vivono in capanne, tende o piccole case di legno e di carta. I primi viaggiano per scoprire il mondo, ma ritornano nelle loro case senza averlo considerato degno di conquista, come fecero gli ammiragli che salparono dalle coste cinesi nel 1421 e nel 1434, secondo lo scrittore australiano Gavin Menzies. I secondi corrono i mari per appropriarsi di tutto ciò che appare bello, utile, interessante o più semplicemente esotico. Come fece la grande missione giapponese che fra il 1871 e il 1873, all’inizio dell’epoca Meiji, perlustrò l’America del Nord e l’Europa per saccheggiare tutto ciò che poteva servire alla creazione del Giappone moderno: sistema politico, strutture amministrative e militari, istituzioni finanziarie, educazione e formazione, ingegneria meccanica, tecniche di produzione, arte, architettura.
Come tutte le intuizioni brillanti anche quella di Braudel può essere considerata imprecisa, approssimativa e inadatta a spiegare la cultura e lo stile politico di altre nazioni. Ma è certamente vero che le grandi riforme dell’epoca Meiji segnano l’apparizione sulla scena asiatica di uno Stato straordinariamente ambizioso e rapace. È soltanto un piccolo arcipelago di isole addossate alle spalle di un grande continente, ma ha deciso di conquistarlo con lo spavaldo coraggio di una goletta che si lancia all’arrembaggio di una corazzata. Comincia dalla Corea che strappa alla Cina con una guerra, fra il 1894 e il 1895, insieme con Formosa, le isole Pescadores, la penisola di Liao Tung. Allunga il suo sguardo sulla Manciuria, allora soggetta a una sorta di protettorato russo, e nel maggio del 1905 sconfigge la flotta dello zar a Tsushima. Annette la Corea nel 1910 e dichiara guerra alla Germania nell’agosto del 1914 soprattutto per impadronirsi dei possedimenti tedeschi in Cina e in altre parti dell’Asia. Un anno dopo, nel 1915, approfitta della guerra europea per sottoporre al governo cinese un documento che contiene 21 domande: quante bastano per instaurare sul vecchio impero, da tre anni repubblica, il protettorato di Tokyo. Non raggiunge il suo scopo, ma nella seconda metà degli anni Venti interviene più volte sul continente e nel settembre del 1931 s’impadronisce della Manciuria per farne uno Stato satellite, il Manciukuò, che verrà riconosciuto, qualche anno dopo, dalla Germania e dall’Italia.
Ma queste mosse non sono che il prologo. Nel luglio del 1937, approfittando di uno scontro a fuoco fra truppe cinesi e giapponesi sul ponte Marco Polo nei pressi di Pechino, il Giappone lancia una campagna militare che si propone l’occupazione dell’intera Cina. È una delle guerre più feroci e sanguinose del XX° secolo. A Nanchino, nel dicembre dello stesso anno, i giapponesi non si limitano a occupare la città. Per sei settimane uccidono i prigionieri di guerra, massacrano gli abitanti, stuprano le donne: 300.000 vittime secondo gli studiosi della Repubblica popolare, fra 100.000 e 200.000 secondo i giapponesi. Nella memoria cinese quello che accadde nel loro Paese fra il 1937 e la sconfitta giapponese del 1945 è molto più di una semplice guerra. È il supplizio di una nazione riscattata dall’unità del suo popolo. È il campo di battaglia su cui comunisti e nazionalisti hanno combattuto insieme per la liberazione della patria. Il Giappone è quindi una sorta di nemico secolare contro il quale è sempre possibile suscitare la collera della nazione. È accaduto, per esempio, quando il Primo ministro giapponese Junichiro Koizumi osò visitare nel 2001 e nel 2002 il santuario scintoista di Yasukumi dove sono sepolti gli eroi delle guerre giapponesi, fra i quali vi sono i veterani delle campagne cinesi e coloro che il Tribunale creato dai vincitori a Tokyo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, condannò a morte come criminali di guerra. I giapponesi hanno borbottato scuse che i cinesi considerano insufficienti, e fra i due Paesi vi è stata quindi negli ultimi decenni una guerra fredda della memoria.
Vi è tuttavia in questa vicenda un aspetto interessante. La guerra fredda non ha impedito agli industriali e ai finanzieri giapponesi di approdare in Cina e di realizzarvi operazioni infinitamente più remunerative di quelle che il militarismo dell’Impero del Sol Levante abbia mai sognato negli anni Trenta e Quaranta. I cinesi sono sempre pronti a manifestare di fronte ai consolati del Giappone nel loro Paese, ma comprano automobili giapponesi, ricorrono a capitali giapponesi e sono felici di esportare i loro prodotti sul mercato giapponese. La memoria del Giappone invasore serve ad alimentare il nazionalismo cinese e può essere utile ogniqualvolta occorra distrarre la società da altri problemi. Ma il Giappone che compra, vende e finanzia è troppo utile per essere considerato sempre un nemico. E la guerra del Pil è sempre meglio di un conflitto a fuoco.