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 2010  agosto 17 Martedì calendario

I SASSOLINI DI COSSIGA E I SOSPETTI SU LEONE


Chissà se Napolitano, prima di dettare quelle righe durissime di sfida sull’impeachment, si è visto balenare davanti agli occhi la Grande Meretrice Circassa. I lettori, nel ribollire del calderone politico italiano, magari non ricorderanno. Ma in uno dei momenti di massima polemica delle destre contro Oscar Luigi Scalfaro, spuntò fuori anche quell’immagine folgorante e misteriosa.

A parlarne fu l’ex ministro della giustizia Filippo Mancuso. Il quale, dopo essersi imposto all’attenzione dei cultori di leccornie linguistiche con parole come «cingomma» (chewing-gum), «latamente» ed «ercolinismo euforico», ebbe l’ispirazione per scaraventare contro l’allora capo dello Stato la seguente invettiva: «È un infame, un presidente che si è prostituito in casa e oggi si prostituisce sul marciapiede. E non è neppure la Grande Meretrice Circassa ma una piccola sgualdrina di provincia». Chi era ‘sta Circassa? Qualcuno pensò ad Aziyadè, che fece impazzire d’amore lo scrittore Pierre Loti. Altri immaginarono un riferimento alle odalische di Hayez o Matisse. O a qualche passaggio biblico. Su una cosa furono tutti d’accordo: era il punto di massima asprezza raggiunto nel bombardamento per spingere Scalfaro a togliersi di torno.

Quello dell’impeachment, dell’esautorazione, della decapitazione (metaforica, s’intende), in realtà, è un tema ricorrente. E sono stati diversi gli inquilini del Quirinale via via costretti a porsi la domanda che si è posto Napolitano. Prima il fondo di Vittorio Feltri dal titolo «Lettera al presidente che preferisce i ribaltoni al popolo». Poi la sparata del deputato pdl Maurizio Bianconi: «Finge di rispettare la Carta, ma la tradisce». Quindi le parole di Angelino Alfano che suonavano come un binario dettato al Colle: «Ogni programma per un governo o la formazione di un governo che prevedesse che chi ha vinto le elezioni stia all’opposizione, sarebbe una violazione dell’articolo 1 della Costituzione». Sassolini... Ma sufficienti a imporre la domanda: meglio lasciar cadere o reagire all’istante, prima che i sassolini possano, chissà, diventare una valanga?

Anni dopo, riabilitato da una parte dello schieramento politico, Giovanni Leone se lo chiedeva ancora, se non avesse sbagliato nel lasciarsi cingere d’assedio dalle chiacchiere intorno alla signora Vittoria e le sue amicizie con personaggi ambigui e la vivacità dei «tre monelli», quei figlioli che finivano sui giornali popolari con certe belle bionde nei locali notturni o sul motoscafo «Ma-Pa-Già». Quando si accorse che il laccio stava chiudendosi, con quei sospetti che lo abbina v a no nelgial lodelleta nge nt i Lockheed al misterioso «Antelope Cobbler» (un nomignolo senza senso, ma che storpiato in «Antelope Gobbler» diventava «ingoiatore di antilopi») era troppo tardi. Certo, neppure lui (come lo stesso Nixon, che preferì gettare la spugna prima di finire formalmente alla sbarra) fu destituito dopo la conclusione di una procedura di impeachment. Ma Enrico Berlinguer e Benigno Zaccagnini non gli lasciarono scelta.

Lo stesso Francesco Cossiga avrebbe avuto modo di provare cosa significhi un accerchiamento progressivo. Cominciò con delle battute. Irritandosi perché non le capivano: «Appena torno a Roma mi faccio fare un apparecchio con delle luci bianca, rossa, gialla, verde e blu. Così quando parlo accendo e dico: sto parlando in vena di ironia, sto parlando in termini paradossali, non sto parlando affatto...». Finì in una progressiva spirale di equivoci, risse, battibecchi, incomprensioni, picconate (un deputato del Msi, Carlo Tassi chiese l’autorizzazione a organizzare una colletta per regalargli un Caterpillar per «sostituire il pur valoroso e artigianale piccone») e accuse sempre più pesanti. Finché saltarono tutti i paletti del garbo istituzionale. «Mi pare un po’ scemo», scrisse sul manifesto Luigi Pintor. E lui: «Con la volgarità del suo articolo e con le sue parole Pintor ha offeso la dignità e la correttezza dei sardi. Per causa sua, mi vergogno prima come sardo e poi come capo dello Stato». «Come devo chiamarla, Presidente? Perché lei si dimette continuamente?» gli chiese Piero Chiambretti. Rispose: «No, non mi dimetto. Minaccio. Mi deve chiamare Presidente Incombente. Anzi mi chiami semplicemente Incombente». Finì, dopo l’ennesimo scontro sul Csm e la magistratura, con la richiesta pds di impeachment per «attentato alla Costituzione e alto tradimento». Richiesta dalla quale si dissociò, in parte, proprio Napolitano. D’accordo nel giudicare le sortite cossighiane come «comportamenti inammissibili». Ma non sulla messa in stato d’accusa: meglio le dimissioni. Un distinguo che lo stesso don «Cecio da Chiaramonti», come ama vezzosamente definirsi, non apprezzò più di tanto. Come dimostrano le continue battutine su varie posizioni dell’attuale capo lo Stato: «Se l’avessi detto io avrebbero subito chiesto al mio impeachment...».


Tra i più duri nel chiedere la rimoz i o ne de ll’allora presidente, c he avrebbe sbattuto la porta due mesi prima della scadenza naturale, c’era un altro futuro inquilino del Colle, Scalfaro: «L’impeachment è un fatto chirurgico, ma non esiste solo questo tipo di intervento. Certo, se la medicina non basta può esser utile la chirurgia». Di più: «Quando Cossiga andrà a casa sarà sempre tardi». Una sentenza che, per quegli strani incroci della politica nostrana, sarebbe stata presto rovesciata addosso lui.

Sulle prime, il più brutale nei suoi confronti era Umberto Bossi, che con la nota sobrietà istituzionale disse: «Con una scoreggia gli faccio drizzare i capelli in testa». Poi, buttato giù il primo governo berlusconiano, il Senatur cambiò idea: «Scalfaro è uno dei prodotti migliori del vecchio sistema, uno col rispetto per le regole nel Dna. Ringrazio Dio di aver messo un uomo di tale fatta sul nostro cammino». L’esatto contrario di quanto pensava il Cavaliere. Che dopo aver benedetto l’atteggiamento scalfariano nella campagna elettorale del 1994 come «assolutamente al di sopra delle parti e ineccepibile», non gli perdonò mai di non aver sciolto le camere «dopo il ribaltone quando la Lega era scesa al 2,5%».

Andò avanti per anni, il tormentone su Scalfaro «garante da operetta» da destituire in quanto «coautore del golpe bianco». Anni. Con pubbliche raccolte di firme. E lui per anni fece spallucce: «Il presidente è stato eletto con una Costituzione che prevede un mandato di 7 anni e se ne andrà solo con una chiamata di Domineddio». Chiamata che, com’è noto, non arrivò.