Andrea Di Consoli, Il Riformista 17/8/2010, 17 agosto 2010
Puntata n.1 - [Vedi sotto indice della rubrica] L’ESTATE HORRIBILIS DI REGGIO C. - Le prime avvisaglie della rivolta di Reggio Calabria del 1970 ci furono già nel 1969
Puntata n.1 - [Vedi sotto indice della rubrica] L’ESTATE HORRIBILIS DI REGGIO C. - Le prime avvisaglie della rivolta di Reggio Calabria del 1970 ci furono già nel 1969. Sarebbe bastato leggere la stampa locale e i comunicati del Consiglio comunale, e del Comitato di agitazione, per capire che la possibilità di fare Catanzaro capoluogo di Regione - e non Reggio Calabria, come sarebbe stato naturale prevedere per ragioni storiche - avrebbe umiliato e infuriato i cittadini reggini. Eppure, senza ripensamenti e senza dubbi, a Roma ci si convince della bontà di nominare capoluogo di Regione – le Regioni vengono istituite proprio nel 1970 – Catanzaro, città sede della Corte di Appello. Il 10 marzo del 1969 l’avvocato Francesco Gangemi, Presidente del Comitato di agitazione, rilascia una sconsolata dichiarazione alla stampa: «Ho il dovere di rendere noto, sia pure con amarezza e sconforto, che, da notizie ufficiose in mio possesso, sembra che siano state prese ad alto livello decisioni che contrastano con i diritti della città di Reggio […] ». Qualche giorno dopo, a Reggio, centinaia di studenti manifestano sotto il palazzo comunale e quello provinciale inalberando cartelli con su scritto “Vergogna” e “Giustizia per Reggio”. Sono i primi segnali di protesta di una città che non vuole farsi umiliare dai vertici romani e calabresi. La rivolta di Reggio Calabria è conosciuta dalle poche ricostruzioni storiche che se ne sono fatte come una rivolta di destra, finanche fascista, ché tutti ne citano lo slogan più famoso, ovvero “Boia chi molla”; ma sin dalle premesse – mancato riconoscimento dello status di capoluogo di Regione, e crescente disoccupazione ed emigrazione – è evidente come il malessere di Reggio Calabria sia popolare e politicamente trasversale. La verità è che Reggio non è affatto città neofascista o postfascista, tanto è vero che alle elezioni comunali, provinciali e regionali del 7 giugno del 1970 l’Msi non ottiene consensi clamorosi (al comune prende 6.083 voti, a differenza della Dc che ne prende 38.769, del Pci che ne prende 13.084 e del Psi che si ferma a 13.867). Stessa sorte alla provinciali, dove l’Msi prende 26.998 voti, mentre la Dc raggiunge quota 94.958 consensi, il Pci 63.693 e il Psi 44.438. Alle regionali, poi, nella provincia reggina l’Msi prende 19.139 voti, a differenza della Dc che ottiene 113.513 voti, del Pci che ne ottiene 58.246 e del Psi che si ferma a 44.121. Inoltre, alle elezioni regionali del 1970, l’Msi non riesce a eleggere neanche un consigliere (non entrano né William D’Alessandro, che ha ottenuto 4.936 voti, né Francesco Franco, più conosciuto come Ciccio Franco, che ne ha ottenuti 4.173). Di quale neofascismo stiamo parlando? A elezioni avvenute, però, Reggio Calabria si domanda con ansia: dove si riunirà il primo consiglio regionale della Calabria? Da Roma arrivano segnali contrastanti; ma la voce che circola con insistenza è che sia esecutiva e operativa una occulta “spartizione” della Regione Calabria decisa dai tre leader calabresi più importanti a livello nazionale, ovvero da Riccardo Misasi e Giacomo Mancini (entrambi cosentini; il primo democristiano, il secondo socialista) e da Ernesto Pucci (catanzarese, democristiano). L’accordo prevede di assegnare a Cosenza la sede universitaria e a Catanzaro il capoluogo di Regione, tenendo fuori dai giochi Reggio Calabria, che non ha mai espresso figure politiche di spicco a livello nazionale. E questa “voce” e questi sospetti non fanno altro, com’è naturale, che aumentare il risentimento e la rabbia dei reggini, che sono sul piede di guerra. Il 5 luglio del 1970 il sindaco democristiano di Reggio Calabria, Piero Battaglia, indice un comizio (in piazza Duomo) a cui partecipano settemila persone. È un vero e proprio “rapporto alla città”. Ai reggini accorsi in piazza Duomo Battaglia dice, tra le altre cose, che bisogna «tenersi pronti a sostenere con forza il diritto di Reggio alla guida della Regione», e che «la città rifiuta di accettare decisioni di vertice prese da questo o quel grand’uomo, a qualunque partito esso appartenga». Nel frattempo si diffonde la notizia che il Cipe ha scelto Cosenza come sede universitaria, e che il Consiglio regionale è stato convocato a Catanzaro per il 13 luglio. La città è in subbuglio, e i consiglieri regionali reggini, a esclusione di quelli eletti col Pci e col Psi, decidono di non partecipare alla prima convocazione del Consiglio regionale. In città appaiono cartelli con la scritta: «Non andate a Catanzaro e in caso contrario non tornate più a Reggio». Il 6 luglio il Presidente del Consiglio Mariano Rumor rassegna le dimissioni. La situazione reggina inizia a sfuggire di mano. Il 13 luglio si riunisce a Catanzaro il primo Consiglio regionale, che però viene rinviato al 22 luglio a causa dell’assenza dei sei consiglieri reggini; a Reggio, invece, nel palazzo della Provincia, si tiene una movimentata controassemblea, al termine della quale si decide di proclamare lo sciopero generale per il giorno successivo (data d’inizio, in sede storica, della rivolta di Reggio). Cominciano i primi blocchi stradali. Intanto s’infiamma anche il dibattito politico. Tra le prese di posizione più clamorose c’è quella del Pci reggino che, in una nota assai polemica, dichiara di respingere «il tentativo della Dc reggina di creare un clima di rissa e di divisione a proposito del capoluogo calabrese. La decisione di invitare i consiglieri regionali a disertare la prima seduta del Consiglio regionale», prosegue il comunicato, «costituisce un grave attacco al funzionamento dell’istituto regionale e si inquadra nel disegno più generale delle correnti conservatrici della Dc e della socialdemocrazia per bloccare il pieno dispiegarsi dell’attività del Consiglio regionale calabrese». La sinistra, quindi, prende le distanze dalla protesta, e dimostra di non capirne le ragioni socio-economiche. Il 14 luglio la città è paralizzata dallo sciopero generale. Sintetizza bene la prima giornata di rivolta, nel suo libro Fuori dalle barricate, lo storico Fabio Cuzzola, che è il maggiore esperto di questa pagina rimossa della storia italiana e meridionale: «Lunghi cortei percorrono il corso Garibaldi. Parte della folla si ferma in piazza Italia per ascoltare il sindaco Battaglia ed il consigliere del Msi Fortunato Aloi. Barricate sorgono sul corso, sul lungomare, in via Pio XI, al rione Sbarre, in via I agosto, al rione Santa Caterina. Il traffico è bloccato. Le forze dell’ordine tentano di smantellare i blocchi stradali e le barricate, ma altre ne sorgono, fin sull’autostrada. I primi scontri avvengono in via Marina tra i dimostranti che occupano i binari della ferrovia e la polizia. Vengono operati alcuni fermi tra i dimostranti, annullati dal Prefetto De Rossi dopo un’ulteriore protesta in piazza Italia. La folla non si disperde. La situazione precipita in serata. Intorno alle 21 la polizia carica e i dimostranti rispondono con lanci di pietre. Intanto i ferrovieri entrano in sciopero: Reggio è completamente isolata». Eppure nessuno, a Roma, comprende la gravità della situazione reggina (per le prime settimane neanche la Rai sente il dovere di raccontare la rivolta); una città, Reggio Calabria, che, anziché portare altrove la propria lotta e la propria rabbia, si accanisce su se stessa, sulle proprie strade, sui propri quartieri, esasperando il sentimento di solitudine e di abbandono in cui si sente precipitata e inabissata. A partire dal 14 luglio del 1970, perciò, Reggio Calabria diventa un territorio non più controllato dallo Stato. Alcuni pensano che la rabbia dei reggini sia solo una questione di campanile («di pennacchio», come disse con sprezzo Amintore Fanfani), ignorandone la frustrazione sociale, economica e politica. La nomina di Catanzaro a capoluogo di Regione è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ma questo, a Roma, il ministro democristiano dell’Interno Franco Restivo, lo ignora (suo sottosegretario era proprio il potentissimo Ernesto Pucci di Catanzaro), se afferma candidamente, in un gioco delle parti di inaudita pericolosità, che la scelta di Catanzaro capoluogo «è ancora provvisoria». La scelta, al contrario, era definitiva, ma questo, i poveri reggini raggirati, non potevano ancora saperlo. Indice delle puntate: 1386100 (n.1); 1386386 (n.2)