Elisa Battistini, il Fatto Quotidiano 17/8/2010;, 17 agosto 2010
DOVE SONO FINITI I MAESTRI?
Pochi soldi, cattive abitudini e un po’ di snobismo. Ma la colpa non è sempre la loro. Che, anzi, incassano spesso. Perché lo sceneggiatore fa un mestieraccio. Prima cosa: lavora sodo dietro le luci della ribalta a servizio del vero titolare del film, il regista. Seconda cosa: se un film è riuscito il merito va, appunto, al regista e se il film non convince spesso si punta il dito contro la cattiva sceneggiatura. Ma se questo è vero ovunque, forse da nessuna parte come in Italia lo sceneggiatore subisce una terza penitenza: il confronto con i bei tempi andati. Quelli di Age, Scarpelli, Pirro. L’ultima lacrima di commiato è stata versata per Suso Cecchi d’Amico. E ogni volta il sottotesto pare essere: “Ah, non ci sono più gli sceneggiatori di una volta”. Ma loro, gli sceneggiatori italiani di oggi, che ne pensano?
ANDREA
PURGATORI
(Il muro di gomma, Fortapasc) scrive per il cinema, per la televisione, è giornalista. Autore poliedrico, ha le idee chiare: “L’Italia non ha mai avuto una scuola, ma una generazione di grandi sceneggiatori. Anche oggi ce ne sono di molto bravi ma devono affrontare parecchi problemi. Il primo è che i registi pretendono di scrivere. Anche una volta i registi lavoravano con gli sceneggiatori, li guidavano, reinterpretavano il copione girando. Ma non avevano la pretesa di essere scrittori. Oggi il cinema italiano d’autore soffre di una presunzione dei registi. Peccato che non sempre un regista sappia scrivere i dialoghi del suo film”. Ovviamente ci sono le eccezioni: “La sceneggiatura de Il divo firmata da Paolo Sorrentino è una delle migliori degli ultimi anni. Ma il problema non sono artisti di questo livello, bensì quelli che non hanno la stessa caratura. Chi non è un grande autore dovrebbe avere un po’ di umiltà e affidarsi a bravi scrittori”. Altra acerrima nemica della sceneggiatura, si sa, è la televisione. Che condiziona l’immaginario del cinema. Anche perchè la maggior parte degli sceneggiatori lavora anche per il piccolo schermo. Per campare. “Ma se riproponi i codici della tv al cinema non funziona”, dice Purgatori. Eppure: che dire di serie come Lost o persino Sex And the City? In realtà, negli Usa molto spesso la tv è più “avanti” del grande schermo. Lo contamina positivamente. “Se proponevi di fare Lost in Italia – continua ironico Purgatori – ti ridevano in faccia. La nostra televisione è legata al melodramma. È didascalica, deve proporre valori morali: se uno tradisce la moglie, nella scena dopo deve avere un incidente stradale. Non si cerca l’innovazione e molti sceneggiatori si portano dietro questi schemi quando scrivono un film”. Ultimo problema: i soldi. “Come diceva Scarpelli, gli italiani sono condannati alla genialità – dice Purgatori – negli Stati Uniti puoi lavorare a un film per un anno riuscendo a viverci, qui no”. Ma senza immergersi in un progetto è difficile tirare fuori qualcosa che sappia di vero. “Gli sceneggiatori americani hanno soldi e tempo. Così studiano gli ambienti che devono descrivere, li frequentano. In Italia usiamo Internet per capire il mondo. Ma poi ti accorgi della differenza”. I primi a risentirne sono i dialoghi. Quante volte si sente dire che un dialogo sa di falso? “Perché chi lo ha scritto – spiega Purgatori – non conosce davvero ciò che racconta e confeziona un prodotto di plastica. Se poi si aggiunge che, mentre uno scrive, sa già che il film deve costare poco e ha a disposizione solo una o due scene con le comparse e via dicendo... allora scatta anche una forma di auto-censura”. I pochi denari non aiutano la creatività. E anche produrre pochi film non aiuta perché, trent’anni fa, quando in Italia si giravano 350 film in 12 lune, circa il 10% erano film che osavano molto. Ma venivano finanziati grazie agli altri, che magari incassavano di più. Oggi la tv potrebbe svolgere questo ruolo. Ma non lo fa.
FRANCESCA
MARCIANO
, sceneggiatrice di Io non ho paura, La bestia nel cuore e di alcuni film di Carlo Verdone (come l’ultimo Io, loro e Lara) concorda: il sistema-cinema è mutato. E rivendica – a difesa degli sceneggiatori di oggi – un dato sostanziale: “I grandi sceneggiatori di cui si parla sempre hanno vissuto un periodo di trasformazione in un Paese uscito dalla guerra. Un Paese che deve elaborare i conflitti e affrontare un’evoluzione è un Paese più facile da raccontare”. Impossibile darle torto: regola aurea del cinema è raccontare il cambiamento di un personaggio e di un contesto. Se ci sono ostacoli forti, definiti, lo sviluppo di una storia può essere facilitato. “Oggi viviamo un periodo opaco, paludoso. Un Paese depresso è difficile da mettere in scena”, dice la Marciano. Certo, inutile negarlo: negli Usa il cinema è sempre smagliante. “Paragonarci agli Stati Uniti – dice la Marciano – è fuorviante. Lì il produttore pensa il film con lo sceneggiatore. In Italia il produttore contatta il regista e lo sceneggiatore è un mediatore. Il nostro cinema ha sempre avuto un’impostazione autoriale. E, paradossalmente, è un handicap per sviluppare una scuola di sceneggiatura . Che infatti non abbiamo”. Ma negli Usa gli sceneggiatori hanno più importanza anche perché lavorano di più. Sembrerà banale, ma se in Italia un giovane sceneggiatore riesce a esordire, spesso per fare il secondo film ci impiega alcuni anni. Così, magari, scrive 2 film in 5 anni (quando è fortunato). “Negli Usa, normalmente, in 15 anni uno scrittore ha scritto 10, 12 sceneggiature – continua la Marciano – e ha maturato esperienza”. Ma, secondo la sceneggiatrice, non possiamo paragonarci agli americani anche perché non abbiamo i loro valori di riferimento. “Gli americani hanno senso etico e danno valore alla verità. Noi italiani possiamo fare grandi film cinici e disturbanti, come Il Divo di Sorrentino. Siamo un popolo disincantato e amiamo il cinema americano perché ci offre emozioni che abbiamo pudore di esprimere, per non apparire ridicoli”. Proprio per questo, ci manca perciò anche il sottofondo “mitico” del cinema. Per intenderci, per la Marciano non potremmo mai scrivere un film come I segreti di Brokeback Mountain dove aleggia il mito della frontiera, spazio evocativo in cui prende corpo il conflitto tra autenticità e costrizione dei protagonisti dei film (i famosi “cowboys gay”). “Le montagne – dice la Marciano – in Italia diventerebbero collinette e il film crollerebbe. Ovviamente, però, neppure gli americani sanno fare la nostra commedia”. Che resta l’unico genere veramente italiano. E dire che il genere nel cinema serve, eccome. Serve da “cornice” per parlare d’altro. Un esempio per tutti, il “noir”. Genere in cui si inseriscono temi psichici, conflitti esistenziali. E che in Italia non ha mai avuto grande fortuna. “Purtroppo – conclude Purgatori – in Italia si continua a snobbare il genere, pensando che il cinema d’autore sia più nobile. O c’è Vacanze di Natale o c’è l’autore. Ma non tutti i registi sono Antonioni o Fellini e il cinema di genere è molto importante per elaborare nuovi percorsi e nuove possibilità narrative”.
GIORGIO
DIRITTI
è un regista e scrive le proprie sceneggiature. Ha vinto l’ultima edizione dei David di Donatello con L’uomo che verrà. Un film d’autore: “L’idea del film nasce da me ed è naturale contribuire a svilupparla assieme agli sceneggiatori con cui lavoro”. Come regista, ad esempio, ritiene – giustamente – che tra scrittura e montaggio “esista un legame fortissimo” e che talvolta il regista la possa cogliere meglio. Ma, dal punto di vista di un regista, ci sono bravi sceneggiatori in giro? “Sì, ma se poi i produttori cercano il progetto più sicuro per non perdere soldi, spesso viene finanziato il film meno originale. Un giovane sceneggiatore, poco pagato e con difficoltà a esordire, per trovare spazio sa di dover scrivere storie vendibili. Una cosa limitante, tanto che spesso le storie più interessanti dei giovani scrittori restano nel cassetto. Però, alla fine, i produttori e i registi che hanno avuto coraggio e realizzato film molto originali oggi sono in pole position”. Un nome? “Paolo Sorrentino”. Il divo. Che infatti vola all’estero.