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 2010  agosto 17 Martedì calendario

PAVESE: IL MESTIERE DI CREDERE

«Mi scriveva da Roma, in un periodo di sconforto. Diceva di essersi recato in una chiesa, ma che gli era parso che una mano invisibile lo respingesse: ’Forse non sono degno di avvicinarmi a Dio’». Fu lo sfogo amaro che espresse in una lettera Cesare Pavese, pochi anni prima di morire, al suo amico e confidente il religioso somasco padre Giovanni Baravalle. Sono trascorsi sessant’anni da quel tragico 27 agosto quando in serata venne trovato morto in una stanza dell’albergo Roma di Torino lo scrittore Cesare Pavese (1908-1950): il grande poeta delle Langhe si era tolto la vita con sedici bustine di sonnifero. La sua opera, nel corso di questi sessant’anni, è stata solcata dalla critica di ogni segno e direzione mettendo in evidenza il suo dramma esistenziale ma anche religioso. Anzi buona parte della critica, da angolature ideologiche diverse, ha affermato che è giusto mettersi di fronte alla sua opera con l’umiltà tipica che si deve avere nei confronti degli spiriti religiosi. Non a caso molti critici, da Edoardo Sanguineti a Bona Alterocca, dal gesuita Domenico Mondrone a Geno Pampaloni, dal monaco Divo Barsotti fino ai recenti studi dell’arcivescovo dell’Aquila Giuseppe Molinari, di Vincenzo Arnone e di Antonio Spadaro, non hanno dimenticato le suggestioni religiose che hanno attraversato la breve vita di Cesare Pavese. Ancora oggi rivelatore di questa ricerca del trascendente è il giudizio di Geno Pampaloni nel trentennale della morte: «Credo in definitiva che Cesare Pavese sia stato quello che via via ha rappresentato; e credo che per rileggerlo con giustizia sia necessaria l’umiltà del dolore con cui i trentenni del’50 accolsero la notizia della sua morte. L’umiltà, vorrei aggiungere, che occorre di fronte agli spiriti religiosi». In molti scritti, da Il mestiere di vivere ai diari, dai suoi romanzi a – soprattutto – le lettere indirizzate, ad esempio, agli amici di sempre come Fernanda Pivano, Davide Lajolo, il cattolico e antico compagno al liceo d’Azeglio Tullio Pinelli, alla sorella Maria emerge il grande fascino che Pavese avverte per la figura di Cristo come personaggio storico, associata per grandezza nel campo della carità a Dostoevskij – «Tutto il resto sono balle» –, ma ricorrono anche gli interrogativi sulla vita, la morte, il peccato, l’aldilà, l’esistenza di Dio. In particolare, sul finire degli anni Venti, si confronta con Tullio Pinelli sulla sua opera giovanile Il crepuscolo di Dio, dove affronta in modo fantastico ed originale, in uno stile quasi da pamphlet teologico, il tema dell’aldilà. Sono gli anni in cui Pavese, grazie a Pinelli, frequenta un sacerdote di simpatie moderniste, don Brizio Casciola. Con l’antico compagno di liceo manterrà una fitta corrispondenza fino all’agosto del 1950. Sarà lo stesso Pinelli, oramai divenuto famoso sceneggiatore di molti film di Fellini, nel 1996, in una intervista rilasciata a ’Jesus’, a raccontare la religiosità del suo amico: «Era uno spirito religioso, tormentato dal dubbio, dall’incertezza. Il punto terminale, su questa terra, della nostra discussione è stato sulla religione e su Dio».
Nonostante le crisi esistenziali e religiose il pensiero di Dio diventa, come testimonia lo stesso poeta delle Langhe ne Il mestiere di vivere: «Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatti inginocchiare».
Ed è proprio durante il periodo di confino e di prigionia prima a Roma a Regina Coeli e poi a Brancaleone Calabro, negli anni Trenta, per le sue posizioni contro il regime fascista, che confida in alcune lettere alla sorella Maria di essersi appassionato alla lettura della Bibbia e delle Osservazioni sulla morale cattolica di Alessandro Manzoni. Nel 1939 Pavese giunge, addirittura, ad affermare che la religione è la soluzione del più gravoso problema della vita, quello relativo a come uscire dalla propria solitudine: «La preghiera è lo sfogo come con un amico. L’opera equivale alla preghiera, perché mette idealmente in contatto con chi ne usufruirà». Ma nell’itinerario religioso dello scrittore delle Langhe è il 1944 quello che lui stesso definirà «l’annata strana e ricca, cominciata e finita con Dio». In quel periodo, per sfuggire ai tedeschi e fascisti e agli orrori della guerra e non essere di peso alla sorella Maria, Pavese cerca un lavoro e lo trova presso i padri somaschi nel collegio Trevisio di Casale Monferrato, come assistente e guida nelle ripetizioni agli studenti. Stringe una particolare amicizia con padre Giovanni Baravalle. È il religioso somasco a procurargli i libri durante il suo ritiro forzato: dall’Action di Maurice Blondel allo Spirito della liturgia di Romano Guardini, alla Storia delle religioni di Pietro Tacchi Venturi. Non a caso la mite figura del padre Baravalle ritornerà, nella narrativa pavesiana, in La casa in collina, sotto il nome di padre Felice. Il dialogo con il religioso somasco sfocerà in una sincera amicizia che porterà il poeta delle Langhe a ricevere il sacramento della confessione e il giorno successivo il 1 febbraio del 1944 la comunione. Durante il soggiorno a Casale Monferrato e a Serralunga di Crea frequenti sono le visite di Pavese al santuario della Madonna nera, dove si confronta sul tema del credere con un sacerdote di quel luogo.
Dopo il 1945 si diradano gli incontri con il ’suo prete’, padre Baravalle, ma continua la corrispondenza testimoniata dalle tante interviste e testimonianze rilasciate dal religioso negli anni successivi alla morte di Pavese, dal 1970 al 1990 al ’Secolo XIX’, ’Gente’ e ’Il Corriere della Sera’. E proprio sulle colonne del ’Secolo’ di Genova padre Baravalle, in un’intervista concessa a Carlo Repetti, tornerà con la mente alla drammatica lettera di Pavese in cui una «mano invisibile pareva che respingesse» lo scrittore delle Langhe da una chiesa di Roma: «Gli risposi immediatamente esortandolo a superare la crisi.
Forse avrei dovuto essergli maggiormente vicino con gli scritti; è un rimorso che di quando in quando mi assale, come mi assalì la prima volta allorché leggendo il giornale del 28 agosto 1950 vi lessi la notizia del suicidio». E vent’anni dopo, nelle memorie stese e affidate alla cura di Cesare Medail, sul ’Corriere’ aggiungerà: «Aveva un fondo di religiosità. Le tirannie della vita, le letture disordinate lo avevano gettato nel dubbio. Tutto questo mi convinse che il problema di Dio era rimasto ben presente in Pavese, dopo Casale, pur escludendo che i mesi del chiostro ne avessero fatto un fervente cristiano».
Un’irrequietezza forse di vivere che ancora oggi è ben scolpita dalle parole di Italo Calvino dedicate all’amico nelle sue lettere dal 1940-85: «La sua disperazione non era vanità del vivere, ma di non poter raggiungere quell’interezza di vita che desiderava». A sessant’anni dalla sua scomparsa rimane ancora attuale e intatto, nella sua lucidità e freschezza, il giudizio, scritto nel 1968, da don Divo Barsotti sul dramma esistenziale del poeta delle Langhe: «Pavese è stato consapevole di essere un vinto: ma da chi? L’impotenza a costruire una sua vita può essere stata la condizione, per lui, di abbandonarsi a Dio. Allora l’atto dell’abbandono avrebbe concluso la sua vita meglio di come egli poteva aver sognato». Il suo gesto estremo mette a nudo la sua «protesta di vita» come ebbe a scrivere ne Il mestiere di vivere. Su questa protesta riecheggiano ancora oggi le ultime parole del diario di Pavese, scritte il 18 agosto del 1950: «O Tu, abbi pietà. E poi?».