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 2010  agosto 17 Martedì calendario

«VIVO UNA VITA SPERICOLATA»

Casello di Recco, A4, ore 11.45. Carlo Pernat si presenta con la sua Mercedes SL 500, puntualissimo. «Scherzi?» fa con la sua cadenza fieramente genovese. «È una questione di educazione. Sai che delle volte avevo una voglia di trombare, ma dopo dieci minuti che aspettavo mi sono rotto e sono andato via...». Pernat è il volpone del motomondiale, un passato da team manager fra Cagiva e Aprilia, un presente da manager di Loris Capirossi e Marco Simoncelli. Sa tutto di tutti. Sa quali notizie spifferare ai giornalisti e come rigirarle a suo favore. Sa fare il suo lavoro, insomma. E nell’ambiente si è guadagnato il soprannome di Don Carlo. Capirossi di lui dice: «Lo rispetto perché ha scelto di fare come gli pare ed è fedele alla sua linea. Molto meglio dei tanti ipocriti che fanno le porcate di nascosto». Carlo Pernat, classe 1948, Philip Morris bianca perennemente accesa, parla, parla tantissimo. Non segue un filo logico, racconta quello che gli passa per la testa. È imprevedibile, spiazzante.
LA MIA VITA È UN BORDELLO
Ci porta nella sua casa di Recco. «È un mese che non ci vengo. Questa casa è come la mia vita: un bordello». L’arredamento è marinaresco, ci sono bottiglie e Cd ovunque, segni di mozziconi spenti su un tavolino, un angolo bar da far invidia a un night club. C’è pure una chitarra Fender. «Visto che posticino?». Fuori un giardino con buganville si affaccia a strapiombo sul mare: «Belin, qui ci porti una figa, due grappette, due cocktailini, e se non te la dà l’ammazzi. Qui ragazzi, vi assicuro, è uno spettacolo, facciam delle mangiate... facciamo anche dei numeri da circo.... In quattro o cinque con qualche amichetta... Delle volte vengono
a trovarmi costaricane, rumene da Napoli, si mettono qua e prendono il sole nude, tanto non passa nessuno».
Rientriamo. Guardiamo le foto di una vita: «Ma lo riconoscete questo? Puttana, è George Harrison dei Beatles. Siamo nel 94, lui era un
grande appassionato di moto. Nell’hospitality di Schwantz mi arriva ’sto qua col figlio e dice: “Ma tu sei Carlo Pernat?”. E io: “Sì”. Lui: “Me lo fai un autografo per mio figlio?”. Ho pensato che fosse un rompicoglioni... Quando mi hanno detto chi era, belin, gli son corso dietro, mi son mezzo inginocchiato, gli ho detto sorry. Cazzo, è stato lui a dire a me “are you Carlo Pernat”, ti rendi conto?». Manca la camera da letto, però. «Vuoi che non ci sia lo scopatoio?». Per arrivarci bisogna scendere un piano. Il letto è disfatto. «Queste mura potrebbero raccontarne di cose, eh. Lasciamo perdere che è meglio».
In casa, Pernat ha anche il calendario del Babylon, «il più bel casino in giro per il mondo. In Europa ce ne sono quattro, il migliore è a Klagenfurt, in Austria. Queste del calendario son quelle che trovi lì, quelle vere... Dovete andarci al Babylon. Mi han dato anche la videocassetta. È un casino di quelli giusti, con duecento euro fai tutto». Gli amici di Pernat dicono che lui sarebbe in grado di scrivere una guida Michelin dei bordelli. Chissà quanti soldi ha speso in donne... «Puttana, un appartamento me lo sarei comprato... Però ho sempre fatto un conto di ’sto genere: se prendi una e ci vai a Portofino, finisce che spendi cento euro di benzina, 35 di parcheggio, consumo gomme e olio, 110 per la cena... Alla fine fai fuori quattrocento euro e magari non te la dà neanche. Allora io ne spendo trecento e mi diverto di più. Poi le brasiliane o le colombiane, belin, fanno anche le innamorate, ti dicono amor mio, mio amor...». Ci prepara da bere, ma non trova il gin. «I miei amici fanno casino, qua si può fare quello che si vuole. Il gin, cazzo, sto pensando a chi cazzo me l’ha portato via... Devo chiamare la donna delle pulizie, che dio la stramaledica, dovrò darle almeno cinquecento euro».
GENOA E I GENOANI
Pernat, come tutti i genoani, è orgoglioso di Genova e del Genoa. «Anche De André era un genoano perso, simpaticissimo. Guarda quel quadro lì, sono i carrugi di Bahia, come quelli di Genova, solo che lì li hanno fatti tutti colorati.
In Brasile ci abiterei, ma finché mi diverto non smetto di lavorare. Mi piace ancora girare il mondo, se non cambio valigia divento matto».
Nel Genoa ci ha pure lavorato. «Nel 98, direttore marketing e comunicazione, sei mesi e poi me ne sono andato via schifato, tutto falso, venduto, comprato. Le moto, invece, sono tutto un altro ambiente. L’ho mai raccontata quella di Mamola? Puttana ragazzi, era matto, aveva la mania dei petardi. Nell’89, nei circuiti, ogni tanto sentivi queste esplosioni. Una notte Rainey dormiva con la moglie: ’sto pezzo di merda di Mamola ha preso un petardo e gliel’ha messo sotto al caravan alle quattro... Il caravan si è alzato di mezzo metro, si son cagati addosso. Ho visto Rainey che con un bastone correva dietro a Mamola...».
LE DONNE (A PAGAMENTO E NON)
Suona il telefono, è l’ex telecronista della Rai Federico Urban. «Belin... eccolo qua. Sì sto raccontando tutto, deve venire fuori quello
che sono, una merda... brutto merdone, guarda che racconto quando ti sei messo a pisciare nella bottiglietta durante la diretta televisiva di quattro ore, che non ce la facevi più...». Riattacca il telefono e ricomincia a parlare: «Guarda quella chiesetta,
è dedicata a una santa... Eh le donne o sono sante o sono troie, mettila come vuoi. Sono come i cani, quando parli sembra che ti capiscano».
Saliamo in auto e ci dirigiamo verso la costa per trovare un ristorante. Ma cosa cerca in una donna a pagamento? «La maiala. La prima cosa che guardo è la bocca, poi tutto il resto. Ah, pure le tette, anche se rifatte. Se vuoi una troia devi andare a troie, mica devi cercare la ragazzina col viso angelico, no? Le più grandi maiale sono le latine. Si trovano nella riviera di Barcellona. C’è un posto bellissimo lì, si chiama Top Damas, Carrer Sant Eusebi 68. Ho una memoria... Di ogni città ti so dire il miglior troiodromo». In Italia? «Vai a cercare sui siti. Il più bello è escortforum.net. Ogni escort lì ha la sua scheda, c’è scritto cosa fa e cosa no. Un mio amico diceva che del maiale si tiene tutto, però della maiala si
tiene solo il numero di telefono. Se no conviene andare a Lugano, trovi brasiliane, venezuelane e colombiane. Puttana ragazzi, le venezuelane... Una volta abbiamo fatto un mondiale di Cross
a Caracas: le dovevi cacciare via, proprio maiale vere, ma belle fighe. Però la più grande quantità di figa è a Buenos Aires. Fa paura!».
MOTO, FOLLIE E... PUTTANE
Pranziamo Da Vittorio, storico ristorante della zona. Un pezzo di focaccia al formaggio, poi pranzo a base di pesce e vino bianco. L’intervista si fa più rilassata.
Ma chi è Carlo Pernat?
«È uno a cui piace vivere e godere, nel senso che non mi faccio trascinare dalla vita, la trascino io. Il mio motto è: il tempo non passa, arriva».
Gioventù?
«In un bar. Il bar per me è la vera università, quando tu hai 16 anni incontri già i disonesti e impari a vivere».
Studi?
«A 26 anni dicevo che di mestiere facevo il fuori corsista di Economia e Commercio. Sono arrivato a cinque esami dalla laurea perché mio padre, cheeradirettoredell’AgipdiGenova,mifece assumere all’ufficio tecnico dell’Eni, a Roma. Non si faceva un cazzo. Ma io volevo tornare
a tutti i costi a Genova. Sul Secolo XIX trovai un annuncio per lavorare nell’ufficio marketing di un’azienda. Era la Piaggio. Mi hanno assunto in cinque minuti. Era il 1974. Piaggio in quei tempi era la numero uno, aveva soldi, budget, idee. Ho imparato a essere un uomo di marketing, poi nel 77 passai all’ufficio stampa».
E le moto?
«Il colpo di culo l’ho avuto nel 79, quando Piaggio ha investito nel settore sportivo comprando Gilera. Avevano bisogno di un uomo che si occupasse delle attività sportive e delle sponsorizzazioni. Non ci ho pensato un attimo, nel 79 ho seguito la Gilera nel Cross, poi la Ferrari di Scheckter e Villeneuve, nell’82 il Giro d’Italia. Poi un giorno dell’84 mi cercano i fratelli Castiglioni, allora titolari della Cagiva. Volevano offrirmi il posto da responsabile delle attività
sportive. Ci ho riflettuto quattro giorni poi ho detto sì. È stata la fortuna della mia vita».
Ed eccoci alle corse.
«Ho continuato col Cross tre anni, vincendo due mondiali. Nell’88 siamo arrivati nella velocità. Prendemmo subito Randy Mamola facendo ubriacare il suo manager. A quel tavolo ballavano dei bei soldi, ma non riuscivamo a farlo firmare. A un certo punto ho incominciato a dargli tanta di quella grappa... Da lì è partito tutto. E a fine
89 arriva Aprilia con un megacontratto. Lì c’era anche l’ingegner Witteveen, molto bravo, con cui avevo già lavorato anni prima».
Sono arrivati gli anni d’oro.
«Abbiamo preso i vari Biaggi, Valentino, Gramigni, Locatelli, Perugini. A quel tempo la comunicazione si faceva solo con le cene. Il giovedì sera, a Salisburgo, portavo una quindicina di giornalisti a puttane, al Club Roma, con la piscina trasparente. Nel 92 arrivò il primo titolo con Gramigni in 125, poi Reggiani vicecampione in 250. Una persona di cuore Reggiani, gli voglio bene. Ha solo un difetto: è un po’ permaloso».
Dopo arriva Biaggi, amore e odio...
«Sì, nel 96 lo licenziammo perché aveva rotto i coglioni. Andava alla Honda e si voleva portare dietro tutta la squadra. Io cosa feci? Portai il team a cena e poi a troie... contano anche quelle. Subito dopo firmarono tutti il contratto che gli proponevamo. Biaggi non lo sapeva e ci rimase malissimo. La storia più bella è un’altra però...».
Quale?
«Riguarda la sponsorizzazione di Lucky Strike alla Cagiva. Claudio Castiglioni la voleva a tutti i costi per almeno tre anni. La decisione spettava a uno di un’agenzia di Milano, un figaiolo di 60 anni.
Lo invitai a Parigi e lo portai al Crazy Horse. Al titolare chiesi quanto costava portarsi a letto una di quelle ballerine. “Dai 10 ai 15 milioni” rispose. Castiglioni mi aveva detto di non badare a spese, così non ci pensai due volte. L’indomani tornai a casa con la sponsorizzazione per tre anni».
Parliamo di Valentino.
«Graziano Rossi, suo padre, mi disse: “Vieni a vedere mio figlio”. Era il 95 e capii subito che era un matto, faceva delle traiettorie... Firmò per tre anni, 30, 90 e 180 milioni. Ti ho mai raccontato quella volta di Villeneuve? Nel 97 vinsero entrambi il mondiale, Valentino in 125 e Jacques con la Renault in Formula Uno. Siccome Valentino sbavava per Villeneuve, decisi di farli incontrare sul palco dei Caschi d’Oro. Era tutto organizzato, c’era la stampa, diecimila Tv... Solo che Valentino andò a ballare con gli amici. Che figura! Provai a rintracciarlo ovunque, ma niente. Non gli parlai per un paio di giorni, poi mi
passò. Non gli ho mai chiesto dove fosse stato, non lo voglio sapere, è meglio».
Dopo di lui?
«L’Italia è nella cacca più totale, di ricambi non ce ne sono, Simoncelli è l’ultimo della nidiata. Il ciclo, se ci svegliamo ora, ricomincerà fra sette, otto anni».
THE END
Sono quasi le quattro. Al ristorante siamo rimasti solo noi. Pernat ordina due grappe e si accende l’ultima sigaretta, anche se fumare in un locale pubblico è vietato. Dalle moto passiamo a parlare di black jack, altra sua passione. Al tavolo da gioco ha incontrato anche il più grande serial killer d’Italia, Donato Bilancia, genovese
pure lui, 17 omicidi a carico. «Belin, era un tifoso genoano e frequentavamo lo stesso club del Genoa. Era elegantissimo, quando venni a sapere che era un assassino ci rimasi malissimo». Dagli assassini alla morte: «Vorrei morire mentre sto trombando con una bella figa. Vuoi sapere cosa scriverei sulla lapide? Qui riposa un uomo che si divertiva e basta, uno felicissimo della vita che ha fatto. La cosa più bella che puoi scrivere sulla mia tomba è che non cambierei niente, tranne la morte. Perché morire è brutto, gente. Ecco, scriverei così: non cambiatemi la vita, cambiatemi la morte».