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 2010  agosto 17 Martedì calendario

IL DRAGONE CINESE BRUCIA I PIANI DI OBAMA

Il prodotto interno lordo cinese ha superato quello del Giappone nel secondo trimestre dell´anno. Su base semestrale Tokyo resta avanti, ma gli analisti concordano sul fatto che alla fine del 2010, in assenza di imprevisti, il sorpasso di Pechino sarà un dato consolidato. Solo dieci anni fa la Cina era la decima potenza economica del pianeta. Ora è seconda, dietro agli Stati Uniti. Ma dall´inizio dell´anno è il primo paese per esportazioni e per consumo di energia.
Il New York Times sottolinea la «crescita spettacolare» della Repubblica Popolare e cita le stime secondo cui «sorpasserà gli Stati Uniti già nel 2030» (con vent´anni di anticipo sul previsto). Il Wall Street Journal parla di «exploit senza precedenti nella storia dei paesi emergenti». Ospita i giudizi degli economisti di J.P. Morgan Chase secondo cui «è impressionante come l´economia cinese abbia continuato a crescere mentre il resto del mondo sprofondava nella recessione». Non si sa se nella reazione americana prevalga l´inquietudine per la rincorsa della grande rivale; oppure il disagio per il declino giapponese: molti infatti temono che gli errori commessi a Tokyo nel curare la deflazione degli anni Novanta si ripetano oggi a Washington.
Altri in America osservano che la Cina è già numero uno mondiale, come partner commerciale di altre nazioni, in molte aree del mondo dall´Asia all´Africa. I prezzi delle materie prime ormai vengono decisi a Pechino e Shanghai. È una magra consolazione osservare che il reddito pro capite cinese (3.600 dollari annui) è meno di un decimo di quello americano (46.000 dollari) perché nei rapporti di forza tra superpotenze la stazza demografica ha un peso.
Nell´immediato per Barack Obama il problema non è la variazione della classifica nel "campionato dei Pil". Più grave è il fatto che stanno sfumando due aspirazioni della sua presidenza. La prima è quella di "volare sulla coda del dragone". Al G-20 di Pittsburgh un anno fa Obama indicò la via maestra per risanare gli squilibri dell´economia mondiale: «Noi americani dobbiamo smettere di vivere al di sopra dei nostri mezzi e risparmiare di più; voi cinesi dovete imparare a consumare e importare di più». La seconda attesa di Obama era di poter instaurare, se non proprio un direttorio Usa-Cina tipo G-2, quantomeno una fruttuosa cooperazione tra le due superpotenze. Alla vigilia delle elezioni legislative di mid-term, invece, la Cina si rivela un handicap per il presidente. Il deficit commerciale degli Stati Uniti con Pechino è risalito ai massimi. La promessa rivalutazione del renminbi si fa aspettare. La Cina rallenta le sue importazioni dall´Occidente, con rare eccezioni come la Germania. Il premio Nobel dell´economia Paul Krugman ha calcolato che una sostanziale rivalutazione del renminbi, e un riequilibrio nelle bilance commerciali tra Pechino e il resto del mondo, darebbero alla crescita globale un impulso pari a +1,5% in un anno. Un impatto enorme, se commisurato alla crescita asfittica dell´Occidente. Ma quella promessa non si materializza. "Volare sulla coda del dragone" resta un privilegio riservato alla Germania e alle nazioni fornitrici di materie prime come Australia, Nuova Zelanda, o correlate con il ciclo cinese, come il Brasile. Il club di quelli che beneficiano dello sviluppo cinese è più esteso di quanto crediamo noi occidentali, ma purtroppo non include quelli che ne avrebbero più bisogno: gli Stati Uniti e le aree deboli dell´Eurozona.
Almeno una parte della sua delusione, l´America se l´è procurata da sola. L´idea di approfittare del boom cinese esportando più prodotti ad alta tecnologia (come fa la Germania) è stata by-passata dalle stesse multinazionali Usa: che delocalizzano in Cina una quota sempre maggiore di attività avanzate. La Microsoft ha uno dei suoi maggiori centri di ricerca a Pechino, la Ibm a Shanghai. Applied Materials ha spostato il suo principale laboratorio d´innovazione a Xian, una città che per molti occidentali è solo la sede dell´armata di guerrieri di terracotta. Più di mille multinazionali hanno già trasferito centri di ricerca in Cina. A sua volta, la grande industria cinese si appropria rapidamente delle nostre tecnologie, attraverso le acquisizioni di imprese. Come ha fatto Geely comprando dalla Ford il marchio Volvo, per 1,8 miliardi di dollari. È significativo il fatto che Pechino abbia diminuito i suoi investimenti nei buoni del Tesoro americani (di cui resta comunque il primo detentore estero con 844 miliardi) per diversificare gli acquisti in favore di azioni delle imprese Usa. Una sorpresa analoga è avvenuta nelle politiche ambientali. Dopo avere incassato il no di Wen Jiabao a Copenaghen, Obama ha dovuto rassegnarsi al fatto che il Senato di Washington non approverà la sua legge sulle riduzioni di Co2. Nel frattempo però il governo di Pechino, pur ritenendosi svincolato da impegni internazionali, procede vigorosamente nello sviluppo delle energie rinnovabili. È un altro settore dove conta di effettuare "sorpassi" non meno clamorosi.
L´ammirazione della J.P.Morgan verso una Cina che si è sottratta alla recessione globale, non si estende al metodo usato dal presidente Hu Jintao. La classe dirigente di Pechino sta sperimentando il più grande modello di capitalismo di Stato e "dirigismo di mercato" mai tentato nella storia. Per Obama è quasi una beffa. Le politiche keynesiane che a lui vengono negate da un Congresso e un´opinione pubblica terrorizzati dai deficit statali, sono le stesse ricette che la Cina manovra con spregiudicatezza. E le consentono di allungare il passo nella rincorsa del secolo.