Paolo Rumiz, la Repubblica 11/8/2010, 11 agosto 2010
Il look di Garibaldi
Puntata n.10 - Camicie Rosse (Sotto: indice della rubrica) DAVANTI AL PONCHO CHE PARLA - Stazione di Milano, guardo gli orari degli arrivi e capisco a che punto è l’unità d’Italia. Treno da Lecce 180 minuti di ritardo. Frecciarossa da Roma 70. Eurostar da Trieste 55. La mia città è persa nel nulla, e chi se ne frega se è costata una guerra con 600 mila morti. Il Paese perde pezzi, si allunga, si frammenta. Il Sud, mai così distante. Mai amato questa stazione: troppo babilonese, rimbombante. E ora sotto il suo ombrello di ferro trovo anche di peggio. Il collasso travestito da macchina luccicante del consumo. Perdio, non c’è più sala d’aspetto. Quasi niente per sedersi. Se non ho la tessera Eurostar devo arrangiarmi. C’è solo il bar, si paga anche per la pipì. Posso comprare tutto ciò che voglio. Ma mi è negato ogni diritto: al riposo, al sorso d’acqua, alla lettura, al silenzio, alla certezza degli arrivi e delle partenze. Il tempo è compresso a un gerundio telefonico. Sto andando, sì cara, sto arrivando. Che pena. E nessuno protesta nella città che nel 1848 tenne in scacco l’esercito austriaco per cinque memorabili giornate. Restiamo in piedi, il luogotenente Cariolato e io, come cavalli fuori dal saloon. Decine di schermi pubblicitari sparano decibel, e non dicono che i biglietti dei treni locali valgono solo all’interno delle regioni. C’è di nuovo la frontiera del Lombardo-veneto, come nel 1848; se sconfini ti multano. E l’unità finisce così, nel rimbombo di Babele, in un delirio di cellulari, nella bolgia di un popolo griffato che subisce. Per scrivere, l’unico spazio è una balaustra sporca di escrementi di colombo. Chissà cosa direbbe Garibaldi. Ma intanto sono io che devo dire perché mi sono cacciato in questo trappolone infernale. Sto cercando il segreto del poncho. "Segreto": ribadisco il concetto. Ce ne sono a migliaia in Italia e nel mondo, di ogni foggia e colore, ma ciascun possessore del cimelio proclamerà di avere "il poncho", non un poncho qualunque. Il più amato, il più speciale. È il miracolo autentico di un taumaturgo: far credere a tutti di avere il suo feticcio in esclusiva. Per capire c’è solo Milano, capitale della moda. Garibaldi ha creato un look, e il suo mito è basato sul look. Jeans, stivali, camicia rossa, fazzoletto annodato, capelli lunghi, cappello che è l’antitesi del kepì militaresco. Garibaldi è irripetibile. Tutti sanno che quello è lui, e nessuno ha più tentato di vestirsi come lui. Se oggi tornasse a passeggiare per via Manzoni, i giovani lo guarderebbero come un figo. Lancerebbe ancora messaggi. Dunque a Milano bisogna venire. A Milano anche il Risorgimento è nel distretto della moda. Il museo è un posto nobilissimo, pieno di scaffali e silenziosi ricercatori al lavoro. Contiene i quadri magnifici del garibaldino Induno sui momenti-chiave del Risorgimento. Uno per tutti: la notizia dell’armistizio di Villafranca che arriva in un’osteria fuori porta seminando delusione tra i patrioti. Ovviamente il poncho guerrigliero c’è, bene illuminato, in una teca tra i cimeli. "C’è in lui soprattutto un’enorme consapevolezza del corpo", sospira Daniela Maldini, che all’università di Milano lavora sul linguaggio della moda. È una donna simpatica, azzimata e precisa. "È stato sempre conscio del suo carisma, anche quando era decrepito. Sapeva eccitare il senso dell’avventura, l’esotismo romantico". È vero. Cavour e Mazzini non dicono niente col loro giacchino da avvocati. Garibaldi invece parla già col vestito. Persino il suo bastone ha senso. È il ricordo della ferita dell’Aspromonte, la stigmata dell’uomo contro, e al tempo stesso la fuga, la vita austera, la scelta pastorale di chi rifiuta il mondo e si fa uno scettro di legno con le sue mani. Sul tavolo della biblioteca tracciamo uno schema. Camicia rossa uguale coraggio. Jeans uguale praticità. Fazzoletto uguale popolo. Cappello senza frontino uguale assenza di gerarchie. Mancanza di medaglie e gradi uguale comando basato sul carisma. Poncho sudamericano uguale guerriglia, più che guerra di battaglioni. La scelta dei simboli è perfetta. L’immagine dell’irregolare con la divisa fai-da-te. Diavolo, ma che stiamo facendo? Discutiamo attorno a un tavolo che potrebbe essere di una sartoria o di un consiglio di amministrazione, ma anche un tavolo d’autopsia. Sezioniamo un uomo vivo come fosse un cadavere. Basta dissertazioni, fanno male alla memoria. Tra questi scaffali ingombri, Garibaldi è un’ombra che sfugge ancora. "Venga, ho qualcosa per lei", mi soccorre Tito Cannella, un architetto che fino a quel momento ha ascoltato in silenzio, poi mi accompagna a palazzo Morando, lì a due passi, in via Borgonovo. Lo ha appena restaurato, con pochi mezzi e in poco tempo. Contiene la storia della città e alcuni pezzi forti dei costumi del teatro Alla Scala. Una chicca, che nemmeno i milanesi conoscono. C’è un poncho anche lì, ma è tutta un’altra cosa. Per arrivarci bisogna passare davanti ai manichini di Don Carlo, Armida, Escamillo. Gli eroi del melodramma ottocentesco. Scivolo a passi felpati davanti ai ritratti severi di Giulia Manzoni, Cesare Beccaria, Giuseppe II; poi a un esercito di costumi d’opera fuori servizio e a due secoli di abbigliamento milanese, marsine, busti, scollature. Ed eccola, la veste che fu bandiera, finalmente al suo posto. Il panno sudamericano color panna, con una camicia rossa donata dalle donne inglesi nel 1864. À plomb e abbinamento perfetti. La rivelazione, il mistero ultimo. Il Graal. Ora so di essere davanti a qualcuno che è molto di più di un protagonista della storia: un grande personaggio da romanzo. Garibaldi è Ulisse, Re Artù, Ivanhoe, Rolando dei pupi, San Nicola dei russi, Conte di Montecristo. Perché altrimenti un romanziere come Alexandre Dumas sarebbe partito assieme a Garibaldi per descrivere l’impresa dei Mille? Dumas era pazzo per l’abbigliamento del Nostro. Lo raccontava con la stessa minuzia con cui descriveva quello di Edmond Dantès, pallido, sofferente e vestito di nero. Ma certo, Garibaldi non è uomo di dissertazioni. Il suo posto è nei teatri, nelle chanson de gestes, nei romanzi, negli inni, nella leggenda. Non sta a Calatafimi o Mentana, ma ovunque: anche dove non è mai stato, come succede ai miti. Anche nei non-luoghi intontiti di consumo; anche nelle boutique di via Montenapoleone o alla stazione di Milano, tra gli italiani cupi e rassegnati ai disservizi. Col suo costume di scena, egli ha recitato un copione nuovo. Ha offerto agli italiani una narrazione diversa, fatta di coraggio, disinteresse, fierezza, coscienza civile, senso delle istituzioni. Dopo secoli di servitù, ci ha dato uno specchio con l’immagine migliore di noi stessi, e per questo continua a dare fastidio. Ci ricorda che esiste l’eroe: quindi irriterà per sempre i cinici e i genuflessi al potere. Indice della rubrica: 1386028 (n.1) 1386029 (n.2); 1386030 (n.3); 1386031 (n.4); 1386033 (n.5); 1386035 (n.6); 1386036 (n.7); 1386040 (n.8); 1386041 (n.9); 1386038 (n.10); 1386037 (n.11); 1386042 (n.12); 1386039 (n.13); 1386068 (n.14); 1386262 (n.15); 1386262 (n.16); 1386497 (n.17); 1386934 (n.18); 1386957 (n.19); 1387466 (n.20); 1387090 (n.21); 1387252 (n.22)