Paolo Rumiz, la Repubblica 1/8/2010, 1 agosto 2010
Puntata n.01 - Camicie Rosse (Sotto: indice della rubrica) SULLE STRADE DELLE CAMICIE ROSSE CON L’ALLEGRA BANDA GARIBALDINA - Garibaldi? Rifare l’Italia in camicia rossa? Fossi matto
Puntata n.01 - Camicie Rosse (Sotto: indice della rubrica) SULLE STRADE DELLE CAMICIE ROSSE CON L’ALLEGRA BANDA GARIBALDINA - Garibaldi? Rifare l’Italia in camicia rossa? Fossi matto. Troppa retorica, celebrazioni, nefasti convegni. La gente ne ha le scatole piene. E poi, che eroe può esistere in un Paese cinico come il mio? Questo mi dicevo, meditando i sentieri possibili di un viaggio nel 2010. Poi è successo che li ho incontrati, i garibaldini; li ho visti sbucare a Perugia, dal fondo dello stradone, là dove l’Umbria si apre sulle colline di Dante, il monte Subasio e il Tupino che discende «dal colle eletto del beato Ubaldo». Li ho visti venire a suon di tamburi, sul crinale tra i palazzi trecenteschi; un rosso plotone di belle ragazze, vecchietti e bambini, a darmi una lezione di Risorgimento in musica. E ho cambiato idea. Rivedo la scena. Chiedo loro «da dove venite» mentre riscaldano gli strumenti accanto alla fontana vescovile, mi rispondono «Mugnano», e sfido chiunque a sapere dov’è questo paese di seicento anime a Est del Trasimeno. L’età va dagli ottantadue della grancassa ai dodici di un tamburino, tre generazioni e mezzo in campo. Quello di ottantadue ride: «Son vecchio, ma non rincoglionito». Vincenzo Gentili ha due figli nella banda; Pieretto Sacchetti, una figlia e tre nipoti; Giancarlo Panzanelli giù di lì. Allora penso: è questa l’Italia, non quella che compare nelle cronache tv. L’Italia è un’allegra banda garibaldina di cinquanta elementi espressa da un borgo di seicento abitanti, in mezzo all’Appennino della porchetta e della terza rima. Il viaggio comincia, senza che lo sappia, quando una pifferaia mi allaccia al collo un fazzoletto verde, mi ordina «marci con noi» e mi spedisce in prima fila accanto al labaro dei «Cacciatori delle Alpi», sezione Anita Garibaldi di Perugia. Reclutato con le buone o con le cattive, in mezzo a farmacisti, operai, infermieri, studenti, ingegneri, tassisti e avvocati. Capisco che sto per fare una cosa non su Garibaldi, ma alla garibaldina. Come viene viene, alla baionetta, e non fa niente se dopo il liceo non ho più letto di Risorgimento. Imparerò per strada. Riattaccano i tamburi e si va, con La bela Gigugin e ciò che fino a ieri mi è sembrata polverosa anticaglia si disvela un tripudio di gioventù. Scopro una forza vitale inconcepibile all’Italia di oggi. Perché non sapevo tutto questo? Cosa mi hanno insegnato a scuola? «Se per la patria mia parto domani / piangere non vedrò la mia piccina / lei stessa metterà tra le mie mani / un fiore rosso ed una carabina». È l’Italia cantabile dell’endecasillabo, non c’è ancora il lugubre tapum della Grande Guerra, la rancida tristezza della trincea, l’impotenza del soldato nel nulla della steppa. Si crede ancora che l’individuo possa cambiare il mondo, e i garibaldini lo cambiano, forse per ultimi. Il Risorgimento è fatto da giovani: Mameli muore a vent’anni combattendo per la Repubblica Romana. Nievo, lo scrittore, uno dei Mille, sparisce in mare a ventinove, e se fosse vissuto sarebbe stato meglio di Manzoni. Mazzini nella Giovine Italia rifiuta iscritti sopra i trent’anni. Ora si marcia di soli tamburi, tra due ali di folla. Perché non ci dicono che l’Unità si fece in musica prima che con le armi? Quando nel gennaio 1849 Giuseppe Verdi diresse al teatro Argentina di Roma, città ancora papalina, la sua nuova opera La battaglia di Legnano, e dopo il coro possente «Viva Italia! Sacro un patto / Tutti stringe i figli suoi», l’eroe che aveva ucciso Barbarossa in combattimento morì baciando il tricolore, l’entusiasmo della folla fu tale che un soldato buttò sul palcoscenico la spada, la giacca e le spalline, insieme con tutte le sedie del palco, e il Maestro venne chiamato venti volte alla ribalta. «Addio mia bella addio / l’armata se ne va / e se non partissi anch’io / sarebbe una viltà». Le camicie scarlatte attaccano la più gentile delle canzoni di guerra dell’Ottocento, strofe che fecero male agli austriaci più di una battaglia perduta. A quel tempo non si mostravano bicipiti e mascelle. Bastava cantare, anche se si era in mille contro centomila, come quei matti che salparono da Quarto nel maggio del 1860. Pensate se Garibaldi avesse dovuto decidere l’impresa sulla base di sondaggi; non sarebbe partito mai e non avrebbe fatto la storia. Gli italiani di allora sapevano combattere anche per la libertà degli altri, andavano a morire in Ungheria, Serbia, Francia, Polonia, Grecia. Lo fecero, con spirito garibaldino, fino alla guerra di Spagna. Oggi non combattiamo più nemmeno per noi stessi. Antonio mi marcia accanto. È umbro, figlio di una terra anticlericale e antifascista, capitano d’industria, e ha capito cosa sto cercando. Sussurra amaro: «C’è una guerra in atto in Italia, e non è tra Nord e Sud e nemmeno tra destra e sinistra. È uno scontro tra... gli evasori e gli onesti. Tutto il resto è teatro». Sento che gli trema la voce: «Siamo alla resa dei conti. I furbi per vincere sono disposti a tutto. Anche a spaccare il Paese». Quando entriamo nel cortile d’onore della prefettura, prende da un leggio gli spartiti delle canzoni già eseguite, me li porge. Vuol dire: impara le parole della religione civile costruita dai nostri padri. E tradita dai farisei. Tra le autorità c’è un ragazzone di novant’anni, occhi da falchetto e fazzoletto al collo. È il generale Virgilio Ricceri, ex lagunare, ex partigiano, decano dei garibaldini d’Italia. Racconta il suo ingresso a Trieste il 26 ottobre del 1954, in un oceano di folla in delirio. Dice a bassa voce: «Abbiamo ancora bisogno di lui». Lui chi? Ricceri mi si para davanti e sorride: «Lui, Garibaldi. E chi altro sennò?». La banda attacca La Vergine degli angeli, dalla Forza del destino di Verdi. Di nuovo, crampi di nostalgia per l’energia vitale di un mondo perduto. Andiamo a pranzo sul Trasimeno in un ranch pieno di gente allegra. Focacce, salsiccia, frittura di lago, vino rosso Greghetto, fumo di grigliate. Vincenzo Gentili, tamburo maggiore: «Nel 1990 eravamo moribondi. La banda perdeva pezzi e ci siamo chiesti che fare. Avevamo una sola risorsa, i nostri bambini. Ne avevamo avuto una bella infornata, e così abbiamo pensato di reclutarli per salvarci, ma anche per salvare loro, che non finissero allo sbando. La famiglia è stata la nostra forza». Marilena Menicucci, presidente onorario: «Siamo gente allegra. Quando andammo a suonare a Caprera, sul traghetto per la Sardegna facemmo ballare tutti sul ponte». Per la notte sono ostaggio della confraternita, ho un divano letto a Mugnano, in una casa accanto al chiostro benedettino. Una notte umida, piena di lucciole, scende su questa terra di foreste dove si canta Bella ciao e Mira il tuo popolo senza avvertire conflitti. Marilena se ne va lasciandomi sul tavolo una dorata focaccia al formaggio. Trovo un libro del 1876, titolo I Mille, stampata in Genova, regio stabilimento Lavagnino. Carta giallina, profumo buono, fotografie di tutti i partecipanti all’impresa. Belle facce ardenti. Accanto ai nomi, le provenienze: Genova, Pavia, Bergamo, Ostiglia, Chioggia, Gorgonzola. La spedizione del 1860 fu un’epopea al novanta per cento padana. Leggo alla luce di un’abat-jour arancione. «Vogate! Vogate pure Argonauti della libertà; là sull’estremo orizzonte di Ostro splende un astro che non vi lascerà smarrire la via». E ancora: «Com’erano belli, Italia, i tuoi Mille! Belli, belli! Coll’abito e il cappello dello studente, colla veste più modesta del muratore, del carpentiere, del fabbro...». C’è la potenza del sogno che travolge ogni calcolo, ma, dietro, c’è anche l’amarezza per gli ideali traditi. Garibaldi non è solo quello trionfante, ma quello sconfitto dagli ingrati, quello che soffre per una plebe di «codardi, prezzolati, prostituti, sempre pronti a inginocchiarsi davanti a tutte le tirannidi». Il campanile batte mezzanotte, e trovo nel computer un altro potente segnale di partenza. Una lettera dall’Argentina, la terra di mio padre. È Alvaro, un parente che non sento da anni. «Querido Paolo, è tempo che ti penso. Ho letto che state demolendo Garibaldi. Lo chiamate ladro, terrorista, Bin Laden. Dite che noi della Pampa gli abbiamo tagliato un orecchio perché rubava cavalli, e che per nascondere quell’amputazione si è fatto crescere i capelli. Sono allibito che possiate credere a balle del genere. E poi non capite che demolire un eroe significa demolire la nazione?». Continua: «Para mi familia Garibaldi era mucho màs que un patriota italiano o un guerriero romantico: era un procer de la libertad. Nella mia infanzia non c’era famiglia che non cantasse in italiano la canzone Se è vero che è morto Garibaldi, pum! Garibaldi, pum! Garibaldi, pum!. E poi ricordo mis caminatas de la mano de mi abuelo gallego hasta la plaza Italia de Buenos Aires, dove c’era l’enorme monumento all’eroe. Pensa: per costruirla si fece una colletta e si raccolse il doppio del necessario. All’inaugurazione nel 1904 suonarono cinquanta bande musicali. Era uno dei padri della patria». «Ma voi italiani sapete che quando andò a Londra, ad aspettarlo erano in cinquecentomila e la carrozza fu schiacciata dalla folla? Sapete che in Russia c’è chi mette Garibaldi accanto all’icona di San Nicola?». Fuori il vento agita i cipressi, Alvaro continua: «Sai, ti ho scritto dopo i Mondiali di calcio perché la vostra uscita dal torneo mi ha fatto riflettere. Credo che il difetto di allenamento non c’entri. Di competitività ne avete anche troppa. Quello che è mancata è l’anima. Così ho pensato che esisteva un nesso tra questa crisi e gli schizzi di veleno contro Garibaldi. Forse siete solo un Paese che ha smesso di combattere». Notte piena di stelle, Vega risplende sopra i boschi. Penso che non è normale un Paese che demolisce il vincitore di tante battaglie e non i generali che persero ignomigniosamente a Custoza. Garibaldi e non Cadorna, cui dobbiamo Caporetto; e non D’Annunzio che di Cadorna cantò il sadismo mistico e le decimazioni dei fanti in trincea. Garibaldi, e non i generali che persero ad Adua in una sciagurata avventura coloniale. Guardo l’ora, in Argentina è ancora giorno, scrivo ad Alvaro della mia voglia di fare un viaggio partigiano in questa Italia che propone Mussolini tra i temi della maturità e va alla restaurazione peggio dell’Austria dopo Napoleone. Sono sicuro che esiste un Paese che resiste, migliore di quello che appare. Risposta: «Vai, companero, per la libertad y la victoria. Lascia perdere Calatafimi e il Volturno, vai nell’Italia di oggi. Metti una camicia rossa e cerca cosa è rimasto del mito. Ho visto un filmato sul capanno di Garibaldi a Ravenna, quello dove nel 1849 egli fu salvato dalla polizia austriaca. È un luogo forte, pieno di presenze. Ti lascio di lui quello che scrisse José Martì... me lo recitava sempre zia Enriqueta. Un corazon existe in Europa basto y ardiente, heroico, generoso... De una patria como de una madre nacen los hombres... La libertad patria humana tuvo un hijo, y fuè Garibaldi!». È fatta. Già l’indomani prendo il treno per il Nord, da Foligno a Ravenna senza cambi. Lascio che il viaggio si faccia da sé e comincerò dalla morte di Anita. Sedute accanto a me, due donne in carriera che sparano parole taglienti come rasoiate. Telefonate di lavoro, computer in canna, non un cedimento all’incanto del paesaggio che scorre al finestrino. Ripenso alle parole di Alvaro. Sì, siamo competitivi, ma abbiamo perso i Mondiali. Cerco di capire che lavoro fanno le due in tailleur, ma non riesco, il linguaggio è troppo astratto. Formule, messaggi trasversali, cura maniacale dell’apparenza, paura del silenzio, paura del pensiero disteso che nasce dall’onda delle colline. Sento che il mio sarà un viaggio in bilico fra incanto e disillusione, un’avventura piena di spine. Canticchio Mia bella addio a bassa voce, con un libro in mano. Le due mi guardano con fastidio. Chissà cosa accadrà quando metterò la camicia rossa. Indice della rubrica: 1386028 (n.1) 1386029 (n.2); 1386030 (n.3); 1386031 (n.4); 1386033 (n.5); 1386035 (n.6); 1386036 (n.7); 1386040 (n.8); 1386041 (n.9); 1386038 (n.10); 1386037 (n.11); 1386042 (n.12); 1386039 (n.13); 1386068 (n.14); 1386262 (n.15); 1386262 (n.16); 1386497 (n.17); 1386934 (n.18); 1386957 (n.19); 1387466 (n.20); 1387090 (n.21); 1387252 (n.22)