Carlo Fruttero, Massimo Gramellini, La Stampa 8/8/2010, pagina 72, 8 agosto 2010
STORIA D’ITALIA IN 150 DATE
28 ottobre 1922
Colpetto di Stato
Lo sciopero generale indetto ad agosto dai «rossi» si rivela un fallimento: le camicie nere sostituiscono gli spazzini, fra gli applausi di una cittadinanza che vede in loro l’unica forza in grado di rimpiazzare lo Stato. Servirebbe una coalizione antifascista con vent’anni d’anticipo. Invece i notabili di Giolitti non si sopportano l’un l’altro, i popolari di don Sturzo non sopportano Giolitti e i socialisti non sopportano nessuno, nemmeno se stessi, continuando a dividersi anche dopo l’uscita dei comunisti. Le liti partoriscono un governicchio affidato al solito giolittiano di complemento, Facta. Proprio a lui, che ne sarà la vittima, viene l’idea della Marcia su Roma: propone a D’Annunzio di organizzarne una per il 4 novembre, quarto anniversario della Vittoria. Mussolini gioca d’anticipo, convocando i ras della Milizia. Ormai il fascismo ha un apparato militare, ma l’unico a scandalizzarsene sembra essere il suo capo: «Se in Italia esistesse un governo degno di questo nome, manderebbe i carabinieri a scioglierci». Quel governo è deciso a farlo lui.
Il piano prevede un’adunata a Napoli, il 24 ottobre. Da lì le camicie nere marceranno su Roma, dove i partiti fanno e disfano organigrammi nell’illusione di coinvolgervi Mussolini, che il potere lo vuole tutto per sé. La sera del 27 il Re rassicura Facta: non cederà al ricatto della violenza. Nella notte trentamila squadristi si mettono in marcia verso la Capitale, vestiti e armati nei modi più assurdi. All’alba del 28 Facta proclama lo stato d’assedio, ma quando porta il decreto al Quirinale per la firma, Vittorio Emanuele glielo strappa di mano e lo chiude in un cassetto. Cosa gli ha fatto cambiare idea? Dirà poi di essere stato tratto in inganno: pensava che i «marciatori» fossero molti di più. Allora perché non ha chiesto informazioni all’Esercito, intenzionato a resistere? Mussolini si trova ancora a Milano, nel suo ufficio di direttore del Popolo d’Italia. Sa che la marcia è una burletta e che se fosse dichiarato lo stato d’assedio gli resterebbe solo la fuga in Svizzera. Arriva invece la telefonata dal Quirinale: il Re intende affidargli il governo. «Lo voglio nero su bianco», risponde. Quando ha il telegramma fra le mani, mormora in dialetto romagnolo al fratello: «S’i foss a bà», ci fosse il babbo. Prima di salire sul treno che lo conduce al potere, legge al telefono la lista dei ministri al direttore del «Corriere della Sera», Albertini. Di fascisti solo tre, e dei più timidi. Tanto, basta Lui. Gli squadristi sfilano per le strade di Roma: in poche ore sono diventati settantamila. Nessuno sa saltare più in fretta degli italiani sul carro del vincitore, il cui discorso alla Camera è già tutto un programma: «Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli». E i sordo-grigi, con il masochismo che è tipico dei deboli, gli votano la fiducia.