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 2010  agosto 07 Sabato calendario

DIVISI DA UNA FRONTIERA CHE NON C’È

All’inizio era solo una "Linea verde", come ce ne sono tante qui nel Levante. Poi è diventata "Linea viola" e alla fine tutti hanno cominciato a chiamarla "Linea blu". L’unico colore che conta per Kasem Mohammad Rahili è la carta ingiallita dei documenti che dimostrano il possesso dei suoi terreni, anche se non esiste autorità a cui mostrarli per ottenere giustizia.
«Avevo due case, frutteti, uliveti, capre e asini lassù alle Fattorie. Sono 38 anni che non ci posso tornare. Ho 14 carte bollate - non una, 14 - che dimostrano la mia proprietà», spiega Rahili. Il problema è che beni mobili e immobili sono più su, a tre chilometri da qui, alle Fattorie di Sheba. Giusto sotto il monte Hermon, la cima più alta del Golan, sul versante che guarda al Libano: sette minuscoli villaggi di montagna dove Libano, Siria e Israele si guardano, diventati un simbolo di queste terre dalle frontiere evanescenti. Occupati da Israele, riconosciuti alla Siria, rivendicati dal Libano. I soldati israeliani li difendono come fossero la stessa Gerusalemme; i guerriglieri di Hezbollah fino a qualche tempo fa bombardavano come se quelle malghe abbandonate fossero il sacro obiettivo del loro risorgimento nazional-islamico.
È stato un caso che lo scontro di qualche giorno fa tra israeliani e libanesi accadesse ad Addaisseh. Poteva e potrà ancora succedere ovunque, lungo i 69 chilometri della Linea blu, chiamata così dall’Onu nel 2000 per dare un’unità di misura al ritiro israeliano dal Libano; e che in generale ricalca la vecchia Linea verde, cioè la linea armistiziale del 1949 (accordi di Rodi); la quale si sovrappone alla frontiera fra mandato inglese di Palestina e francese di Libano e Siria (Conferenza di San Remo, 1923). Dove a est finisce la Linea verde/blu, incomincia quella viola che separa la Siria dal Golan occupato da Israele.
Kasem Rahili non conosce la storia ma a 74 anni ne ha tratto le conseguenze. Vive in Kuwait e, guerre permettendo, torna a Sheba ogni estate a sfogliare i certificati, a respirare aria fresca e coltivare nelgiardino pesche dure come mele ma saporite, che regala a chi viene a interrompere la sua solitudine. Due figli vivono in Svizzera, uno in America e nessuno conta più su quelle proprietà, lassù alle fattorie. Dopo tutti questi anni israeliani e libanesi si sono accordati solo sul 25% della loro frontiera comune: il resto è ancora conteso. La Linea viola sul Golan rispetta solo un cessate il fuoco. Non è una frontiera. In gran parte dei suoi lati Israele non ha confini: non lo sono al nord quelli con Libano e Siria né ce ne sarà uno a est fino a quando non nascerà una Palestina. La Palestina non è niente, è una specie di Emmenthal geopolitico «dove i buchi sono palestinesi e il formaggio israeliano », come dice Saheb Erekat, negoziatore di un presunto processo di pace.
Nel vuoto lasciato dall’impero ottomano, caoticamente riempito dalle potenze coloniali e violentemente rivendicato dai nuovi stati, l’evanescenza frontaliera in Medio Oriente è giurisprudenza. La Giordania, per come fu disegnata nel deserto, è uno scherzo. L’Iraq un incubo. La Siria non smetterà mai di sentirsi defraudata del Libano che a sua volta, per come è stato creato, non sarà mai un paese davvero sovrano.Poi c’è il Kuwait per le cui frontiere ha combattuto mezzo mondo. I confini sauditi e degli altri emirati non sono più certi di altri. Una quindicina d’anni fa Qatar e Arabia Saudita si sono presi a fucilate in mezzo a un deserto dove le stazioni delle dogane appaiono flebili come miraggi.
Non è così rilassante mangiare pollo arrosto e fumare narghilè all’ombra di un pergolato,a 15 metri da un bunker israeliano. Soprattutto tre giorni dopo la battaglia di Addaisseh, pochi chilometri da qui. Nel villaggio di Kfar Kila il padrone di al-Warda, la rosa, ha due lavori: il ristoratore in tempo di pace, il miliziano hezbollah quando le cose si mettono male. Un tatuaggio d’ispirazione bellico-religiosa, sul bicipite destro, rivela la doppia attività. La mobile evanescenza delle frontiere mediorientali ha creato due categorie umane. Esistono i profughi che hanno sempre certificati o chiavi di casa a testimoniare un diritto e uno stato d’animo che non avranno mai soddisfazione. Come Kasem Rahi-li, libanese di Sheba, ci sono milioni di profughi palestinesi e migliaia di ebrei sefarditi, cacciati dalle loro case a Beirut, Baghdad, Sana, Tunisi, Casablanca, quando nacque Israele. L’altra categoria è quella che continua a vivere lungo le frontiere causa della sua instabilità. Pronta ad accettare che la quotidianità sia interrotta senza preavviso dalla guerra. Come il ristoratore di al-Warda che non dice il nome né l’età perché, spiega qualcuno, «la resistenza libanese non ama la pubblicità». Il filo elettrico della frontiera è a 10 metri dai tavoli, il bunker israeliano coperto da una tenda mimetica poco più in la. Bandiere gialle di Hezbollah con il ritratto di un "martire" e alle spalle i frutteti di Metulla. A una distanza inferiore a quella che serve a una fucilata, le case a schiera con i tetti rossi della cittadina israeliana sono accostate alla collina di Tsifya. Fra i tavoli di al-Warda il figlio del ristoratore fa i suoi primi passi. Cosa significa vivere qui? «È norma-le, sono nato dentro questa geografia », dice il ristoratore che non avrà 30 anni. È tutto così normale che nessuno vieta di fare fotografie a destra e sinistra. «Durante l’occupazione metà dei miei clienti erano soldati israeliani, ora vengono i caschi blu dell’Unifil». E quando si spara? «Si spara», conclude l’uomo. «Ma prima chiudiamo il ristorante».