Claudio Magris, Corriere della Sera 7/8/2010, 7 agosto 2010
DA FINIRE - DALLA MITTELEUROPA ALLA GIUNGLA AVVENTURE E FOLLIE DI UN BOTANICO
La vita avventurosa e cocciuta di Vojtech Fric è idealmente compresa fra due cactus, cosa che si addice non solo alle sue ricerche botaniche, la cui passione lo portò nelle più inospitali giungle della terra, ma anche alle tante spine che non mancarono alla sua esistenza, cui egli non permise di guastargli il gusto del mondo. Il primo dei tanti cactus della sua storia è quello che da bambino, nella sua Praga (dove era nato nel 1882), porta a casa — probabilmente sottraendolo a qualche serra — e al quale dà il nome di un gendarme del quartiere, un certo Otto Pfeiff, per vendicarsi della sospettosa sorveglianza nei confronti dei suoi giochi con gli amici. Ogni infanzia conosce la guerra universale fra chi ha il dovere di impedire di attraversare le aiuole e chi ha il dovere di attraversarle.
Quel cactus oggi non porta il nome del gendarme, ma si chiama Echinopsis eyricasii; è guardandolo fiorire sul davanzale della sua finestra che Fric, affascinato dalla sua bellezza aspra e riottosa, si innamora di quella pianta e delle piante in generale, con un entusiasmo che lo porterà a studi originali, a viaggi di scoperta e a una fama europea di scienziato. La sua Praga, a quell’epoca, è l’affascinante città céca-tedesca-ebraica del vecchio impero absburgico prossimo alla fine e ricco di incredibili, contraddittori e creativi fermenti culturali; la Praga magica di Kafka, Hašek, Rilke e delle memorie del Golem e degli alchimisti.
Fric è figlio della grande borghesia céca praghese, padri e zii esponenti del liberalismo nazionale, insigni studiosi e ricchi commercianti. Con le sue scoperte botaniche ed etnografiche e con le sue esplorazioni, egli porterà in alto il nome della famiglia, ma la vita randagia e squattrinata turberà quel nobile decoro, tanto che lo stesso suo zio Anton, illustre zoologo, inviterà editori e musei a non dare un soldo a quello sprovveduto di suo nipote, che pure già a quindici anni era divenuto un’autorità in materia di cactus dell’Europa Centrale.
Ma non era Praga l’orizzonte di Fric; forse perché la Mitteleuropa era un cactus spinoso da sopportare ogni giorno o più semplicemente perché l’inverno praghese del 1899 gela la sua collezione di cactus, egli parte, per ricostituirla, per l’America del Sud. In cinque viaggi — che gli fanno trascorrere complessivamente circa dieci anni nel Mato Grosso, lungo le rive dei fiumi Paraguay e Pilgomay, che egli percorre per primo dalle sorgenti alla foce — diventa non solo un grande botanico, ma soprattutto un fraterno antropologo, studiando le popolazioni amerindie, imparando le loro lingue al punto di compilare un dizionario di trentasei di quest’ultime, vestendosi e vivendo come gli indiani, guadagnandosi la loro stima quando, attaccato da un giaguaro, riesce a ucciderlo restando gravemente ferito, sposando un’india Chamacoco, Loray, da cui ha una figlia, Hermina Ferreira Fric, che non vedrà mai più da quando sarà tornato in Europa a pochi mesi dalla sua nascita e che morirà a 105 anni nel 2009.
Studia i narcocactus ossia i cactus dagli effetti narcotizzanti, provandoli su se stesso e descrivendo i loro effetti curativi contro il vomito e i disturbi respiratori nelle altitudini delle Ande. Le fotografie mostrano dapprima un elegante giovane in tenuta coloniale, viso affilato e occhi duri sotto il casco, e più tardi un vecchio gagliardo dagli occhi buoni e dalla selvaggia barba bianca, metà profeta metà marinaio, con in testa un cappellaccio da pirata. Esperimenta ibridazioni, scrive e lascia a metà lavori scientifici che altri porteranno a termine traendone gloria, con sua somma indifferenza; raccoglie indiscriminatamente materiali d’ogni sorta, oggetti andini, trofei, piante, radici, tende, asce; cerca di ordinare questo cumulo di cose, ma la passione totalizzante di raccoglierle travolge ogni sensato ordine classificatorio, sicché quando porterà la sua arca di Noè a Praga il potenziale valore di quest’ultima sarà annullato dalla massa esorbitante, che lo costringerà a vivere non in una casa, ma in una specie di folle deposito, una giungla del Chaco traslocata in un interno praghese.
Nelle foreste pluviali sudamericane in cui l’umidità fa sempre sera, trova ogni tanto le tracce e specialmente le tombe di qualche caparbio precursore. Trova l’eccezionale archivio fotografico di Guido Boggiani, il geniale e azzardato esteta milanese, ammirato da d’Annunzio, che si era avventurato intrepidamente in quelle terre prima di lui, lasciando una fondamentale documentazione e venendo ucciso, sembra per le sue spicce attenzioni a una donna india, nonostante fosse conosciuto presso gli indigeni anche come Lily, per le attenzioni rivolte agli uomini, cosa nient’affatto strana in una cultura pervasa dal sentimento panico di una sensualità indifferenziata. Più conturbanti, per alcuni indiani, erano semmai le sue fotografie, temute e aborrite quali proditorie rapine dell’anima, dell’immagine catturata in una malvagia fissità. Non è solo una superstizione india, giacché anche in tante culture popolari europee esiste il tema del demonico furto dell’immagine nello specchio o dell’ombra. Del resto pure un grande scrittore absburgico come Joseph Roth, in un libro contro il nazismo, L’Anticristo, se la prende col cinema, reo di rubare l’anima e perciò complice di quella modernità blasfema sfociata a suo avviso nel nazionalsocialismo.
Nelle foreste del Paraguay Fric soprattutto cura gli indios, decimati da epidemie, febbri, infezioni, specialmente intestinali. La sua gente sono in particolare i Chamacoco, una piccola popolazione con una sua ricca affascinante cultura, già studiata da Boggiani, e soprattutto con una interessantissima lingua, ora analizzata in