Virginia Piccolillo, Corriere della Sera 7/8/2010, 7 agosto 2010
LE FRASI PERFETTE IMPRESSE SULLA PELLE
Dalla sfumatura, altissima, alla scapola destra Samantha è tutta letterine. Se ferma il colpo di spazzola ricostruisci la citazione: «Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che abiterò in una di esse, visto che riderò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero». E’ un frammento del Piccolo principe quello che per 100 euro hanno tatuato sul collo alla aspirante parrucchiera romana. Anche se lei non lo sa. «Bella eh? L’ho copiata a un’amica mia di Facebook. Lei con le frasi è proprio in fissa ». Non è l’unica. Tutt’altro. E’ l’evoluzione imprevista di un trend iniziato in sordina in ambienti molto diversi: quello delle parole portatili.
All’inizio furono le T-Shirt in scatola. Vendute in libreria con raffinate citazioni letterarie. Poi vennero quelle umoristiche con doppi sensi, anche di dubbio gusto. Quindi, ed è la recente proposta della moda, abiti, borse, copriletto e cuscini ricoperti di frasi. Pensieri amorosi, magari in francese, impressi su tazze e teiere. E, da ultimo, brani poetici dipinti su intere pareti della casa.
Ma l’idea di incidersi addosso parole amate ha registrato in questa estate un vero e proprio boom. Complici, forse, le immagini dei calciatori tatuati. Conferma Moreno Gentili, designer evocativo e scrittore, autore dei manifesti «Ti amo perché» e «Piantala»: «C’è molta voglia di parole. Se prima ci si limitava a tatuarsi i nomi ora si arriva ad Omero e a Shakespeare. Scampoli di cultura senza approfondimento. Un po’ come la società. Viaggiamo per sommi capi. E la frase tatuata corrisponde a un bisogno di rassicurarsi. Il web ha obbligato milioni di persone a tornare a scrivere. Ma è una scrittura povera di contenuti. Così le parole diventano oggetto di esibizionismo con caratteri e lingue più assurde. Pensiamo ai calciatori con gli ideomi sul muscolotto». Certo che Antoine de Saint-Exupéry non è frequente tra calciatori e vip. Dilagano invece scritte orientali, anche se i delusi su Internet mettono in guardia: «Avevo chiesto figlia della luce in giapponese e mi hanno tatuato figlia di un serpente », avverte Sara di 190 morti. Anche Marco, ventunenne, fiorentino spaccia per «religiosa» la sua scritta. La illustra, orgoglioso, vergata in corsivo svolazzante, sul suo basso ventre: «Gott weiß, ich will kein Engel sein». E traduce, sicuro: «Dio sa che sarò un angelo». Ignora che in realtà significa «Dio sa che non voglio essere un angelo». E’ dei Rammstein, un gruppo tedesco, che fa metal. Del resto le parole maledette sono un altro genere gettonatissimo. Tra spirali elfiche, dragoni alati, su bicipiti e addominali culturistici compaiono parole di guerra e di sfida. Una simbologia affinata nei penitenziari. Anche per questo permangono i preconcetti negativi sui tatuaggi. E’ di qualche giorno fa la notizia che il Tar della Liguria ha accolto il ricorso di un aspirante carabiniere. Era stato escluso dal concorso per un angioletto sulla spalla. Era già accaduto a un’aspirante poliziotta. Sanremo, su un blog. Materazzi ha optato per «se un problema non si può risolvere a che serve preoccuparsi?» e «se un problema può risolversi perché preoccuparsi?» impresse sui tricipiti. Fabrizio Corona ha trasformato la spalla nel fotoromanzo della sua storia con la Moric: Nina racchiusa in un cuore, sotto ha aggiunto «perdonami» e sopra un rosario con dedica a Maria. Il filone mistico ha molti proseliti. Federico Marchetti, portiere della Nazionale, si è fatto tatuare l’Ave Maria su un braccio dopo essere sopravvissuto a un terribile incidente. Arima, ventottenne thailandese, barista, ha inciso sul polpaccio il suo «per grazia ricevuta»: «I survived Bali 12 ottobre 2002», l’attentato alla discoteca da
Potranno le citazioni letterarie far riconquistare una buona fama ai tatuaggi? O riuscire in ciò che molti insegnanti falliscono: affascinare i ragazzi e attrarli verso la parola e magari la lettura? Federica assicura di sì. Trentenne inquieta di Lodi, si è impressa sul fondoschiena «l’amore è un’illusione da cui mi saprò guardare». E giura: «Roland Barthes l’ho scoperto cercando una frase liberatoria dopo la fine di una storia. Ma anche Baudelaire e Pablo Neruda. Ora li amo».
Al tattoo come veicolo letterario non crede però Erri De Luca. Amante delle parole come della montagna, mentre arrampicava, lo scrittore vide tatuato in ebraico sul bicipite di un ventenne l’incipit di un salmo. Racconta l’effetto: «Leggermente "fuori-posto" però stupefacente. Ho pensato: che ci fanno le lettere là sopra? Un simbolo di appartenenza? Lui mi ha detto che non era ebreo, ma gli erano piaciute quelle parole: «Il signore è mio pastore: non manco di nulla». E quella grafia. Ma questo non lo aveva spinto ad approfondire la Bibbia». D’accordo Claudio Magris: «Non credo sia questa la via alla lettura. La parola è una cosa fondamentale. La si può usare anche a sproposito. Quella tatuata è un’abitudine, una moda. Come portare un piercing o una bandana. Tutto lì. Ma non lo dico in senso negativo. La cosa mi lascia indifferente. La vita è fatta anche di grandi indifferenze. Senza snobismo. Non lo farei. Ma non sentirei Dante profanato se vedessi tatuato su un collo il mio verso preferito: "la bocca mi baciò tutto tremante"».