Alessandro Penati, la Repubblica 7/8/2010, 7 agosto 2010
SE LA FAMIGLIA DIVORA I SOLDI DELL’EREDITA’
Secondo i nuovi dati Istat, l´anno scorso la produttività (quantità di beni e servizi prodotti con un´ora di lavoro) è tornata ai livelli del 1996. Peggio ancora la produttività totale, che stima la quota di crescita ascrivibile a fattori quali progresso tecnologico, capitale umano, miglioramento dei processi produttivi, economie di scala: siamo tornati al 1993.
Poiché il reddito pro capite, al netto dell´inflazione, può crescere solo se aumenta la produttività, le prospettive, specie per i giovani, non sono esaltanti. Inoltre, l´onere del debito pubblico tenderà a gravare su una frazione sempre più piccola della popolazione (che lavora), con capacità di reddito stagnante. A questo si aggiunge la perdita di competitività. Da un avanzo del 3,5% del Pil nel 1996, la bilancia delle partite correnti è costantemente peggiorata fino a un deficit del 3,5% previsto per il 2011 (Ocse). Un deterioramento di 7 punti percentuali significa che il Paese domanda stabilmente più di quanto produce: l´euro ha nascosto il problema, facilitando il finanziamento del disavanzo, ma non l´ha cancellato.
I dati Istat sono stati accolti con uno sbadiglio: forse perché già noti, almeno in parte; più probabile che si pensi di risolvere il problema ignorandolo. Non serve poi illudersi dell´inattendibilità dei dati, perché ignorano il sommerso (evasione e criminalità), la migliore qualità del made in Italy (una borsetta di Prada non è una semplice borsetta), e il benessere («basta guardarsi attorno»). Sono argomenti surrettizi. L´emersione del sommerso aumenterebbe il reddito, non la produttività, a meno che da 15 anni criminalità ed evasione crescano sistematicamente più dell´economia. Se così fosse, il segnale di declino sarebbe ancor più preoccupante. La valutazione dei miglioramenti qualitativi è un problema, ma comune e anche più marcato in altri Paesi (un iPhone non è un semplice telefonino). Quanto alla parvenza di benessere, il tenore di vita si può mantenere attingendo alla ricchezza accumulata in passato; ma a spese delle generazioni future (chiedetelo agli eredi delle grandi aristocrazie).
Quindici anni di produttività stagnante nell´industria sono la prova di mercati del lavoro da riformare, fisco pesante, infrastrutture carenti e Stato inefficiente. Ma anche dell´incapacità delle nostre imprese di avvantaggiarsi del progresso tecnologico e delle economie di scala rese possibili dalla globalizzazione. Preoccupa particolarmente il calo della produttività nei servizi, perché è proprio in settori come sanità, tempo libero, commercio, finanza, comunicazioni, trasporti che, altrove, l´innovazione tecnologica ha permesso forti incrementi di produttività. La struttura produttiva del Paese non è cambiata; regge sempre meno il passo con il resto mondo; e non pare in grado di assicurare a gran parte dei cittadini una crescita del tenore di vita.
Interessante il confronto con gli Usa. Negli ultimi 15 anni, una quantità crescente di prodotti e servizi incorporano idee e tecnologie sviluppate da 8 colossi (Microsoft, Hp, Oracle, Google, Apple, Ibm, Intel, Cisco): insieme hanno 1,2 milioni di dipendenti, fatturano 450 miliardi e, nonostante la crisi, in Borsa valgono quanto il Pil della Spagna o della Russia. Notava l´Economist che ognuno di questi giganti ha prima fatto leva sulla propria nicchia per crescere e sfruttare le economie di scala a livello globale; poi ha aggredito quella degli altri, rigenerando la spinta concorrenziale. Grazie a combinazioni di concorrenza, sviluppo e innovazione tecnologica, gli Usa possono sperare di mantenere la crescita di produttività e tenore di vita, a dispetto della concorrenza asiatica. Una trasformazione epocale dell´industria tecnologica Usa che è stata interamente promossa e finanziata dal mercato dei capitali (non dalle banche). Da noi, invece, in 15 anni siamo riusciti a fare di Borsa un sinonimo di operazioni opportunistiche, e di corporate bond una parolaccia. Ci restano le solite banche, sempre più "locali" e consortili. Ma senza un mercato dei capitali - grande, efficiente, e capace di accollarsi i rischi - qualsiasi trasformazione del sistema produttivo, se anche la si volesse, rimane una velleità.