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 2010  agosto 07 Sabato calendario

REPORTAGE NEL SUD DELL’AFGANISTAN

Senjaray (Afghanistan) - Gli occhi sono immobili, lo sguardo resta agganciato. Quello elettronico della macchina biometrica a quello sfumato blu del contadino afghano. Il computer dà il responso, c’è una concordanza, il nome è nell’archivio dell’intelligence americana. Solo un nome, niente reati o affiliazioni. Non è abbastanza. Per i soldati il sospetto non è più sospetto, per i talebani potrebbe diventare un bersaglio. «Tutta questa gente mi ha visto parlare con voi, avete preso la mia foto, mi puniranno» dice l’uomo al tenente Cory Donohoo.
«E’ la procedura, succede ogni giorno, non sei l’unico» prova a tranquillizzarlo l’ufficiale via interprete. Aggiunge sottovoce: «Se fossimo stati i sovietici, ti avremmo sparato, non scattato la fotografia». L’interprete non traduce. Il plotone della compagnia Alpha è in pattuglia per le strade di Senjaray, muri di fango chiudono i cortili e disegnano un labirinto marrone che incanala l’aria umida. Il tenente si ferma a parlare con i pochi anziani seduti davanti ai portoni, segna i nomi, prova a individuare le parentele. «Mappare il terreno umano» così lo chiamano gli strateghi della controinsorgenza. Arrivi in un nuovo villaggio, non sai niente di niente, devi capire chi ha il potere, chi ti può aiutare, chi ti vuole ammazzare. «Compiliamo le pagine bianche e le passiamo tra gli ufficiali» commenta il capitano Lorne Grier. Le «pagine bianche» diventano indispensabili in una nazione dove l’ultimo censimento è stato fatto nel 1979, imposto dall’Armata Rossa. In trentun anni la popolazione è cambiata, non i rischi per gli eserciti stranieri. Una raffica di kalashnikov riporta i soldati sulla terra dove stanno, non sono più antropologi in divisa. Dai tetti, qualcuno ha sparato verso due elicotteri Apache, più una provocazione che una manovra militare. Il tenente Donohoo chiede l’intervento del drone, l’aereo spia telecomandato, basta con le domande, si rientra alla base.
Senjaray sta incastrata tra le montagne desertiche e la valle del fiume Arghandab, vigneti, alberi di melograno e campi di marijuana che - giurano i contadini - cresce da sola, di certo qualcuno la pota, quando fiorisce. E’ la capitale del distretto di Zhari, una ventina di chilometri a ovest di Kandahar, sud dell’Afghanistan, epicentro della guerra per questa estate. Qui sono convogliate la maggior parte delle truppe concesse dal presidente Barack Obama ai suoi comandanti, qui sono stati ammassati gli uomini e le donne della 101ª Divisione. Che in Afghanistan ritrovano il generale David Petraeus, l’ufficiale che li ha guidati in Iraq nel 2003. Con loro è riuscito a pacificare Mosul, mentre il resto del Paese squagliava nello scompiglio.
Petraeus porta ancora cucita sul braccio destro l’«aquila urlante», il simbolo della Divisione, in Afghanistan vuole ripetere lo schema iracheno. Gli americani hanno preso il comando del Sud dai (pochi) canadesi a metà luglio. Hanno cominciato a muoversi in un’area che non vedeva le forze della coalizione da anni. «Quando entriamo nei villaggi più sperduti, qualcuno ancora crede che siamo i russi» racconta un soldato. Controllare questa valle (i distretti di Zhari, Arghandab, Panjway) è considerata la chiave per riportare la sicurezza a Kandahar.
I talebani sono nati qui nel 1994, il mullah Omar predicava in una moschea a Senjaray, un ex signore della guerra Haji Ghani, che adesso porge agli americani il supporto della guardia personale, giura di possedere ancora il suo cavallo. Queste terre sono la bandiera che i fondamentalisti non vogliono ammainare. Queste terre sono la via principale di accesso per gli attacchi a Kandahar, lungo una strada naturale (il fiume, i canali d’acqua) e una artificiale: l’Highway 1, l’anello che viaggia in tutto l’Afghanistan e unisce le città più grandi, intasato di convogli militari che muovono i rifornimenti e di talebani che muovono i rifornimenti. In mezzo, schiacciati tra un blindato e il rischio delle mine, i civili afghani sulle Corolla bianche ingorgate di passeggeri.
Il Primo battaglione, Seconda brigata, della 101a è arrivato prima di tutti gli altri. Sono qui da maggio, stanno trasformando la Fob (Forward Operating Base) Wilson in un quartier generale permanente. Perché i dormitori e le docce, la palestra e la mensa verranno lasciati in eredità alle truppe afghane, se e quando saranno in grado di cavarsela (il presidente Hamid Karzai ha promesso entro il 2014). Wilson coordina le operazioni dei Cop (Combat outposts), gli avamposti dislocati lungo la valle dell’Arghandab, a un passo dai villaggi, come impone la strategia di Petraeus (e del predecessore Stanley McChrystal). Gli americani devono vivere in mezzo alla popolazione.
«Il nemico è un ostacolo, non l’obiettivo» spiega il tenente colonnello Johnny Davis, che comanda il Primo battaglione. «I talebani non vogliono farci uscire dalle basi, vogliono impedirci di avvicinare la gente». Elenca le tribù dell’area, i capi clan e i rapporti di potere. Un albero genealogico illustra chi conta nel distretto di Zhari, la gerarchia dei notabili che spesso hanno solo un nome come molti afghani. Davis Parla di sviluppo economico, governo, sicurezza. E’ il tipo dell’ufficiale-intellettuale (un master all’Università del Michigan) che Petraeus ha coltivato e vuole trovarsi attorno. Ripete ai suoi comandanti: «Non cercate di offrire una soluzione americana a un problema afghano».
Sul muro è appesa una mappa satellitare della zona. L’Arghandab è una striscia verde, larga tra i quattro e i sei chilometri, lunga una ventina. A nord la linea rossa della Highway 1. In questo corridoio, si giocano le sorti della guerra. Anche i sovietici ci hanno provato, due volte, nel 1982 e nel 1987, due volte sono stati sconfitti. Gli uomini dell’Armata Rossa l’hanno ribattezzato «l’inferno verde» e negli ultimi anni del conflitto si sono rifiutati di attraversare il distretto di Zhari. «Ci spostavamo nella giungla, attaccavamo, ci disperdevamo e ci raggruppavamo per un nuovo assalto. Sono le stesse tattiche usate oggi dai talebani. Combattevamo senza pensare alla sete, alla fame, con gli stessi vestiti per mesi, un pezzo di pane e qualche dattero» ricorda nella sua autobiografia il leader fondamentalista mullah Zaef, allora un giovane mujahed.
Luglio è stato il mese più sanguinoso per le truppe americane, nei nove anni della guerra che non finisce. I 66 caduti rappresentano il record per la contabilità della morte, erano stati 19 in aprile, 34 in maggio, 60 in giugno. E’ all’inizio di luglio che gli uomini del tenente Chris Kirnel sono finiti in un’imboscata tra le strade fangose di Senjaray. Il giovane ufficiale racconta del «doc», il dottore «che ne ha salvati un paio anche se era ferito». Le vocali allungate dalla saliva e dal tabacco, una presa sotto il labbro inferiore, qui lo fanno tutti, più semplice che sparare e fumare allo stesso tempo, descrive la tensione di muoversi in un budello dove il pericolo arriva dall’altra parte del muro. I talebani stanno usando una nuova tattica: si nascondono nei cortili e al passaggio della pattuglia lanciano le granate, sono quelle vecchio stile a forma d’ananas, restano micidiali. «Sembra la Prima guerra mondiale, scontri da trincea. Noi rispondiamo con le nostre». E’ la pallavolo trasformata in roulette russa. «A nord della città, si estende il deserto - continua Kirnel - e ai veterani ricorda l’Iraq». A sud, la giungla attorno al fiume, come in Vietnam, il conflitto che questi ragazzi non hanno vissuto.
A Camp Senjaray, appoggiato sulle pietre che dominano la valle, la convivenza con i soldati afghani è ravvicinata. Fa parte della dottrina Petraeus: per ogni americano che arriva con il «surge» deve aggiungersi un afghano. I kandak (battaglione in pashtun) sono formati da reclute appena uscite dall’addestramento, pochi sanno sparare, ancora meno sanno leggere. Il tenente colonnello Davis spiega - e approva - le richieste degli ufficiali afghani («se il mio alloggio ha l’aria condizionata, è giusto che anche i loro ne siano forniti»), la truppa è meno paziente. Il confronto culturale scroscia alle docce, che gli afghani spesso usano come cesso. Nell’avamposto a Senjaray è stato istituito un turno di guardia in più per insegnare ai commilitoni locali la differenza tra il buco di scolo dell’acqua e quello della toilette chimica. Non è solo folclore militare. Attorno all’11 di agosto inizia il Ramadan e i comandanti afghani stanno ancora decidendo se sia lecito lasciare combattere il loro uomini, durante il giorno, quando peraltro sono a digiuno. Gli insorti non tentennano, vedono l’Islam dal punto di vista strategico e starebbero preparando un’offensiva durante il mese sacro.
Nelle strade di Senjaray non c’è quasi nessuno, l’accoglienza per il tenente Donohoo è inospitale. Sfila il guanto per stringere le mani e toglie gli occhiali balistici, perché possano guardarlo in faccia. Il cerimoniale sta nelle quattro pagine di galateo ad uso dei soldati che Petraeus ha diffuso per email pochi giorni fa. Una famiglia riempie le cassette di cartone con i grappoli d’uva appena raccolti. Vogliono venderli in Pakistan, non sanno come portarceli. Haji Lala, boss locale e riluttante alleato degli americani, ha offerto le sue quattro auto, non è chiaro quanto (e se) pagherà per la frutta. «Qalam, qalam» i bambini chiedono penne. «Piccoli oggi, talebani domani» gracchia l’interprete. «Che importa, noi ce ne saremo già andati» commenta il tenente. «Spero».