Franco Venturini, Corriere della Sera 7/8/2010, 7 agosto 2010
HIROSHIMA LA FORZA DI UN GESTO DOVUTO
La presenza dell’ambasciatore USA alle cerimonie per l’anniversario del bombardamento atomico di Hiroshima è un atto dovuto e tardivo. Dovuto perché una cosa sarebbe scusarsi nei confronti di quel Giappone imperiale che aprì le ostilità con l’attacco a Pearl Harbor nel 1941 (questo gli americani di certo non lo capirebbero), ma cosa ben diversa è manifestare, come finalmente è accaduto ieri, la vicinanza anche formale dell’America all’unico popolo al mondo che abbia sperimentato le conseguenze di un attacco atomico. Per mano, appunto, americana. Ed è anche tardiva la presenza dell’ambasciatore perché 65 anni di attesa dal giorno in cui Enola Gay sganciò la bomba sull’operosa Hiroshima sono troppi. Perché non si doveva darla vinta così a lungo ai super-nazionalisti delle due parti, perché quel che ha deciso ora Obama doveva essere deciso dai suoi predecessori, e non soltanto perché il Giappone è un cruciale alleato degli Stati Uniti. Oppositori e dietrologi insinuano ora che Obama abbia in realtà voluto bilanciare le liti con Tokyo sulla base militare di Okinawa, che sono già costate la poltrona a un Primo ministro nipponico. Ma la nostra convinzione, oltre che la nostra speranza, è che le talpe della politica si sbaglino. Che Washington abbia percepito un dovere al quale era sinora venuto meno, e che, come qualcuno anticipa, Obama voglia andare di persona a Hiroshima senza clamorose scuse politiche ma almeno con umana pietà.
Hiroshima, del resto, oltre che luogo di distruzione e di dolore è diventata un simbolo forte della nostra storia. Benché meno devastanti, i bombardamenti «classici» di Dresda, di Amburgo o della stessa Tokyo non furono meno crudeli, così come non lo furono quelli di Coventry o di Londra. Ma a Hiroshima c’era in gioco dell’altro. C’era la volontà Usa, lungamente preparata con il Progetto Manhattan, di affermare un primato mondiale non soltanto in quel che rimaneva dell’offensiva contro l’Asse, bensì e soprattutto in un dopoguerra che già si annunciava irto di difficoltà nei rapporti con l’Urss. Quando le bombe atomiche americane polverizzarono Hiroshima e tre giorni dopo Nagasaki (210.000 morti), Washington e Mosca erano ancora alleati in guerra. Ma Stalin capì tanto bene la sfida statunitense da affidare a Laurentij Beria, capace di terrorizzare gli scienziati anche con un sorriso, la supervisione della rincorsa sovietica. Che culminò con il primo esperimento soltanto nel 1949. Fu questo anticipo di guerra fredda, la vera partita che si giocò sulla pelle dei giapponesi? Ancora oggi il parere degli storici non è unanime. Alcuni sono convinti che le due atomiche del ’45 abbiano in realtà prevenuto l’enorme perdita di vite che uno sbarco americano avrebbe comportato (il Giappone si arrese pochi giorni dopo le stragi). Altri sostengono che Tokyo era pronta a trattare comunque la resa, che non sarebbe stata necessaria una occupazione sanguinosa del territorio nipponico. Di sicuro vi è che, dopo il «collaudo» di Hiroshima e il successivo inseguimento sovietico, l’arma atomica da militare diventò politica e diplomatica, dissuasiva e in quanto tale garante di pace. Soltanto oggi, nel «grande disordine mondiale» che ci assedia, il pericolo della proliferazione sembra dover resuscitare il concetto dell’atomica come arma militarmente utilizzabile. Dalla Corea del Nord all’Iran. Ma con tante sfumature intermedie: davvero gli Usa di Obama aiuteranno il Vietnam ad arricchire in proprio l’uranio, contraddicendo tutta la loro politica?
L’unica certezza è che l’atomica è tornata a far paura. Motivo di più per andarci, a Hiroshima. E per ricordare che gli arsenali nucleari esistenti oggi equivalgono a 150.000 (centocinquantamila) volte il potenziale di quella bomba sganciata il 6 agosto 1945.