Stephen Moss, Vanity Fair n.31 11/8/2010, 11 agosto 2010
QUEST’UOMO CI VUOLE TUTTI MORTI
Tutto, di lui, è strano. Strano il suo aspetto: Julian Assange, fondatore/direttore/portavoce di WikiLeaks - un servizio mondiale di divulgazione di notizie riservate - è alto, cadaverico, vestito di jeans logori, giacca marrone, cravatta nera, scarpe da ginnastica distrutte. Con i suoi capelli prematuramente bianchi, qualcuno l’ha paragonato a Andy Warhol, ma non mi ricordo chi, e questo lo fa infuriare, perché per lui l’accuratezza è tutto. Odia il lato soggettivo del giornalismo; temo, che odi i giornalisti in quanto tali, e che concepisca WikiLeaks - «sistema non censurabile per la divulgazione di documenti massiccia e senza tracce» - come un modo per fare a meno degli idioti soggettivisti come me.
Se fosse lui a scrivere questo articolo, metterebbe online l’intera ora e mezzo di discorso che ha pronunciato al corso estivo del Centro di giornalismo investigativo della City University di Londra, più i 10 minuti di conversazione mentre camminiamo verso il ristorante - riesco quasi a farlo investire da una Bmw a tutta velocità - più i 20 minuti passati a parlare a tavola prima che mi venga gentilmente fatto notare che ho esaurito il tempo a disposizione. «Quando usa fonti secondarie sul mio conto, faccia molta attenzione», dice, e mi fa notare che in un recente profilo del New Yorker - lunghissimo, dettagliatissimo e controllato mille volte - [’autore si è permesso di fare una supposizione su una delle sostenitrici di WikiLeaks basandosi solo sulla T-shirt che le ha visto addosso.
«Il giornalismo dovrebbe assomigliare di più a una scienza, i dati dovrebbero essere tutti verificabili. Se i giornalisti vogliono dare al loro lavoro una credibilità a lungo termine, devono andare in quella direzione. Avere più rispetto per i lettori». Gli piace l’idea che un articolo di 5 pagine sia affiancato da 70 pagine di fonti messe a disposizione del lettore su Internet. Ora che ci penso, non sono più tanto sicuro che quell’auto fosse una Bmw, né che andasse a tutta velocità.
WìkiLeaks.org, lanciato da Assange nel gennaio 2007, ha messo a segno un’impressionante sequenza di colpi, considerato lo staff ridottissimo e la quasi totale assenza di fondi. Ha smascherato la corruzione del clan familiare dell’ex presidente keniano Daniel arap Moi, divulgato i segreti della prigione di Guantànamo, e quelli di Sarah Palin. Ma a catapultarlo al centro dell’attenzione dei media è stata la divulgazione, nell’aprile scorso, del video di un attacco aereo americano, a Baghdad nel luglio 2007, che causò la morte di numerosi civili iracheni e di due operatori Reuters. Il video, divulgato nella versione integrale da 39 minuti e in un montaggio di 18 intitolato Collatteral Murder, rivela aspetti inquietanti della prassi militare statunitense: l’approssimazione nell’individuare i bersagli (il pilota dell’elicottero identifica come armi quelle che in realtà sono le videocamere della troupe Reuters), la frenesia di finire un uomo gravemente ferito che sta strisciando per mettersi in salvo, l’indifferenza anche verso due bambini, passeggeri di un furgone accorso per raccogliere le vittime, e subito attaccato. «È colpa loro se portano i figli in battaglia», dice il pilota.
SOLO CINQUE DIPENDENTI
La mia tesi, che subito Assange disintegrerà assieme a tutte le idee che mi ero fatto di lui, è che quel video è stato il punto di svolta per WikiLeaks. Ma prima di riuscire a esporla, arriva al tavolo uno studente. «Julian, posso stringerti la mano? Perché apprezzo moltissimo ciò che fai. Sei un eroe». L’icona e il discepolo. Come Warhol, davvero: Assange impresario di un nuovo modo di fare notizia. La mia tesi, dicevo. «Il video di aprile ha cambiato tutto, giusto?». È una domanda retorica, solo che lui risponde no. «I giornalisti cercano sempre scusanti se si occupano solo oggi di qualcosa che avrebbero dovuto vedere una settimana fa. Per questo dicono che una cosa è nuova». Ammette, però, che il raggio d’azione di WikiLeaks si sta rapidamente espandendo. «Negli ultimi sei mesi ci siamo concentrati sulla raccolta di fondi, quindi abbiamo divulgato poco materiale. Abbiamo un enorme accumulo di cose da pubblicare» (quest’intervista risale al 9 luglio: il 25 «l’enorme accumulo» si sarebbe risolto nella divulgazione di oltre 90 mila documenti militari riservati sul reale andamento della guerra in Afghanistan, divulgazione che sta mettendo in difficoltà Obama).
WikiLeaks ha solo 5 dipendenti a tempo pieno e una quarantina di persone che «molto spesso fanno cose per noi», più 800 collaboratori occasionali e 10 mila sostenitori. Il pericolo di essere infiltrati dai servizi di sicurezza è elevato, «e questo rende difficoltosa la ricerca di nuovi talenti perché ognuno deve essere ben controllato, oltre a ostacolare le comunicazioni interne perché tutto deve essere criptato e protetto da procedure di sicurezza. E poi dobbiamo essere pronti a rispondere alle cause legali». La buona notizia è che l’ultima campagna di raccolta fondi ha fruttato 1 milione di dollari, principalmente dai piccoli donatori. Le grandi organizzazioni sono restate alla larga a causa dei pregiudizi politici e dei timori sulla legittimità della divulgazione online del materiale riservato.
Assange deve prestare attenzione anche alla sua sicurezza personale. Bradley Manning, alle spalle 22 anni di carriera come analista dell’intelligence militare Usa, è stato arrestato e accusato di aver passato a WikiLeaks il video di Baghdad. Le autorità americane sospettano che l’organizzazione sia in possesso di un altro video che documenta l’attacco al villaggio afghano di Granai, attacco che ha fatto molte vittime civili. C’è chi ha parlato di 260 mila documenti riservati che sarebbero in possesso di WikiLeaks, e le autorità statunitensi avrebbero espresso l’intenzione di interrogare Assange a proposito di questo materiale che, se divulgato, potrebbe compromettere la sicurezza nazionale. Fonti vicine alle agenzie di intelligence gli hanno consigliato di non mettere piede sul suolo americano, dove rischierebbe rappresaglie. Lui non conferma che a passargli il video è stato Manning, ma dice che chiunque lo abbia fatto «è un eroe». «Pensi ci siano spie nel ristorante? Gli americani stanno cercando di acciuffarlo», sento bisbigliare al suo compagno di tavolo un uomo poco distante. Un discorso pubblico in pieno centro di Londra non fa pensare a qualcuno che si sente in pericolo, ma l’organizzatore dell’evento di oggi mi ha detto che Assange tende a non passare due notti di seguito nello stesso luogo.
INTERNATIONAL SUBVERSIVES
Nonostante il modo di porsi mite, Assange trasuda fiducia in se stesso, forse persino immodestia. Quando gli chiedo se è sorpreso dalla sempre crescente rilevanza di WikiLeaks, risponde di no. «Ho sempre confidato nel successo dell’idea, altrimenti non le avrei dedicato tanto tempo, ne avrei chiesto ad altri di dedicarne». Molto di quel tempo lo ha passato in Islanda, dove la libertà di informazione è protetta, e dove ha sostenitori di alto livello. Però non ha una base: «Come un inviato di guerra, sono ovunque». Il suo Paese di origine è l’Australia, dove è nato nel 1971, nel Queensland, in una famiglia assai poco convenzionale - e qui entrano in ballo le fonti secondarie di cui mi ha detto di diffidare. I suoi genitori gestivano una compagnia teatrale ambulante, per questo cambiò scuola 37 volte (l’altra versione è che sua madre, convinta che la scuola incoraggiasse la sottomissione all’autorità, lo educò privatamente a casa). Ci fu poi il divorzio, la madre si risposò, ruppe anche con il nuovo marito, e si ritrovò in fuga con Julian e il fratellastro. Si è innamorato dei computer da ragazzine, è diventato un hacker, ha creato un gruppo, gli International Subversives, che penetrava i computer del ministero americano della Difesa. Si è sposato a 18 anni, ha avuto un figlio, poi c’è stato il divorzio e una lunga battaglia per la custodia del bambino. Il ritratto, dal punto di vista giornalistico, è chiaro: esperto hacker, ostile all’autorità, sostenitore delle teorie del complotto. Fondare WikiLeaks poco dopo i 30 anni sembra una conseguenza inevitabile. «Ma è piuttosto il modo in cui un giornalista vede qualcosa oggi e cerca di trovare una spiegazione. È così che si scrive la storia. Vediamo una cosa e cerchiamo di produrre un racconto che la spieghi».
Nel discorso di oggi, ha detto di non essere ne di destra ne di sinistra: i suoi nemici gli appiccicano etichette nel tentativo di danneggiare l’organizzazione, ma ciò che conta per lui è l’informazione. «I fatti prima di tutto», è la sua filosofia, «poi ne trarremo le conseguenze. Non puoi fare niente di sensato finché non sai in che situazione ti trovi». Pur rifiutando le etichette politiche, dice che WikiLeaks ha un suo codice etico. «Abbiamo i nostri valori. Io sono un attivista dell’informazione. Diamo alla gente l’informazione. Crediamo che un quadro storico e intellettuale più ricco e più accurato sia una cosa intrinsecamente buona, perché dà alle persone gli strumenti per prendere decisioni intelligenti». Aggiunge che tra i suoi obiettivi c’è quello di fare luce sulle violazioni dei diritti umani.
PENNIVENDOLI VIGLIACCHI
II successo di WikiLeaks, gli chiedo, è una critica implicita al giornalismo convenzionale? «Sicuramente c’è stata un’incosciente incapacità di proteggere le fonti. E sono quelle fonti a correre tutti i rischi. Mesi fa, a una conferenza di giornalismo, c’erano manifesti per ricordare che dal 1944 mille giornalisti sono stati uccisi. È scandaloso: quanti poliziotti sono stati uccisi dal 1944?». Lo scandalo, penso voglia dire, è che i giornalisti uccisi sono così tanti. Ma lui intende l’esatto contrario. «Soltanto mille!», esclama, alzando un po’ la voce quando capisce che l’ho frainteso. «Quanti ne sono morti in incidenti stradali? Probabilmente 40 mila! I poliziotti, che hanno il ruolo importante di combattere il crimine, muoiono in numeri molto più alti. Prendono sul serio il loro lavoro». Anche i giornalisti, protesto, prendono sul serio il loro lavoro. «No. Di quei mille, quasi tutti erano collaboratori locali in posti come l’Iraq. Pochissimi giornalisti occidentali sono stati uccisi. Credo sia una vergogna che così pochi giornalisti occidentali siano stati uccisi, o arrestati, mentre facevano il loro lavoro. Quanti giornalisti sono stati arrestati l’anno scorso negli Stati Uniti, un Paese di 300 milioni di abitanti?».
I giornalisti, spiega, lasciano agli altri i rischi, e tengono per sé i meriti. Hanno permesso troppo a lungo allo Stato, agli affaristi, ai gruppi di interesse di agire indisturbati. È giunto il momento di un network di hacker e informatori, pronti a fare un lavoro migliore. Non ho tempo di ribattergli, sta già sorseggiando un calice di vino bianco, è arrivato il cameriere a prendere l’ordinazione. Solo una cosa vorrei dirgli:
il numero dei giornalisti uccisi dal 1944 a oggi è molto più vicino ai duemila che ai mille. E l’accuratezza è tutto, nel nuovo mondo dei media.