Enzo De Mauro, Il Messaggero 6/8/2010, 6 agosto 2010
FLAIANO
QUALCHE mese prima della morte avvenuta nel novembre del 1972 Ennio Flaiano si propose agli ascoltatori della radio svizzera come un contemporaneo di Giovenale, di Marziale e, sorprendentemente, dell’elegiaco Catullo. Persino il nome e il cognome, al pari di un destino, lo spingevano a considerarsi l’ultimo degli scrittori latini, una sorta di testimone o, ancora meglio, di cronista di un’epoca precaria, vacillante, piagata, illuminata da una luce che il tramonto rende lancinante. Inoltre, egli considerava l’intelligenza come una prerogativa degli uomini delle civiltà scomparse, degli evi declinati. Che poi sia stata Roma la leva o il motore della sua personalissima intelligenza non può che confermare l’assunto, vale a dire la superstizione che con l’andare del tempo s’è trasformata in leggenda, in aurea memoria.
Quella di Flaiano così come appare fin da subito nell’opera, proprio a partire dal Diario notturno del 1956 non è la città rinascimentale, onirica e fantastica di Giorgio Vigolo, popolata di fantasmi di pietra e di ombre inquietanti e misteriose. Condannato al presente e alla contemporaneità, le rovine danno piuttosto allo scrittore pescarese, non diversamente che a un viaggiatore straniero benché stanziale, la sensazione di sentirsi un sopravvissuto. Quando Flaiano usciva la mattina dalla sua casa di via Montecristo, nel quartiere Montesacro, dove abitò dal 1953 in avanti, Roma si presentava al suo sguardo come un immenso mercato delle meraviglie o un sorprendente labirinto ricco di vita in potenza, dolorosamente scossa dal vento di una storia oramai remota, arcaica, divenuta infine incomprensibile.
Un giorno, entrato per caso nella chiesa del Gesù, Flaiano si mette a osservare l’ampio soffitto così scrive “rigurgitante di nudi sani, liberi, volanti verso un piacere o una dannazione suprema. Sono nudi rosei e carnosi, ma si capisce che non poteva essere altrimenti. Il pensiero corre anch’esso al piacere, a quel particolare piacere di propaganda che i gesuiti della controriforma avevano inventato per rinnovare le loro chiese e adeguarle ai tempi. Era l’epoca dei San Sebastiano, delle Sante Terese in dolce deliquio, delle penitenti nude, l’epoca in cui il corpo non veniva idealizzato soltanto nelle sue forme ma nei suoi turbamenti”. È un punto cruciale, perché da quel “saturnale in volo”, come lo chiama, esce limpida l’immagine del grottesco contrappasso col mondo fuori, impastato di esibizionismo, di piccolo sadismo casereccio, di patetici ammiccamenti pubblicitari a modelli di supposto scandalo.
Quella visione, per Flaiano, rappresenta una folgorante epifania: la vera tragedia risiede nella incapacità o nell’impossibilità di far coincidere vita e storia. O, se si preferisce, nasce da una simile sfasatura l’assenza del tragico, e Roma è troppo materna, troppo familiare perché un tale sentimento trovi adeguata linfa. Flaiano è stato, con la malinconia che gli era propria, lo scrittore che meglio di chiunque altro ha saputo rappresentare questa mancanza e questa disarticolazione morale.
Gli amici di cui si circondava e che incontrava in piazza del Popolo, al caffè Rosati, o alla libreria Rossetti di via Veneto ovvero, tra gli altri, Sandro De Feo, Ercole Patti, Vincenzo Talarico, Mino Maccari, Amerigo Bartoli e Vincenzo Cardarelli erano anche loro malpensanti e inflessibili nel negarsi a ogni richiamo della felicità. Ma fu Flaiano a dare profondità al senso di spossessamento tipico di quella stagione votata all’ottimismo. La capitale che tutto accoglie, glorifica, divora e dimentica, urticante e terribile, la troviamo nel racconto Un marziano a Roma (incluso nel Diario notturno e composto nel 1954, cioè sei anni prima che, trasformato in commedia, venisse portato all’insuccesso da Vittorio Gassman). E una parabola dolente, straziante, crudele. Ecco il fenomenale Kunt, l’omino extraterrestre, atterrato a Villa Borghese e portato in trionfo, intervistato, conteso alle feste, ricevuto dal Santo Padre, dal Presidente della Repubblica, dalle più alte cariche dello Stato e dal Sindaco in Campidoglio, vezzeggiato e fotografato (addirittura!) accanto ad Alberto Moravia e a Carlo Levi e poi, passando i giorni, via via sempre più ignorato, svillaneggiato, quasi linciato e poi, ammesso che non venga pignorata l’aeronave, costretto a tornarsene su Marte. Di lì a poco Flaiano, insieme a Federico Fellini, inventa il mito della “dolce vita”. Supremo paradosso. Nei “Fogli di via Veneto”, pubblicati nel volume postumo La solitudine del satiro (1973), come il Baudelaire flâneur nella Parigi che muta più in fretta del cuore dell’uomo, egli vede i marciapiedi della strada diventata di colpo celebre simili a una spiaggia. Ci sono gli ombrelloni di tanti colori; immaginario è invece il mare. Una notte, prima di tornare a casa, trova una piccola conchiglia che la risacca ha lasciato sul bagnasciuga. Se la mette in tasca e quella materia fossile diventerà polvere, fragile e comunque indistruttibile, a segnare la temperatura di una lontana era geologica. Di quell’era di quello snodo di decennio Flaiano sarà per sempre la spina nel fianco, la punta arroventata nel cuore di uno “sviluppo senza progresso” trionfale e intimidatorio insieme. Ma a Roma egli restò comunque fedele sino alla fine. Anche per lui vivere significò “un po’ buttar via la vita”.