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 2010  agosto 06 Venerdì calendario

VIA POMA, VENT’ANNI SENZA VERITÀ PER L’OMICIDIO DI SIMONETTA

In venti anni la cronaca si fa storia, un giallo diventa mistero irrisolto, le testimonianze sfumano nei ricordi. Non così per via Poma, e basta ciò a farne un caso unico. L’omicidio di Simonetta Cesaroni è tutto questo: già storia eppure ancora cronaca, le ventinove coltellate del 7 agosto 1990 e il primo processo di questi mesi, le parole raccolte dagli investigatori di allora e le deposizioni in aula di oggi, le foto in bianco e nero della bella ragazza uccisa e quelle a colori dell’imputato, Raniero Busco, l’ex fidanzato che adesso è un uomo adulto, ha famiglia e giura la sua innocenza. Davanti ai giudici della III Corte d’Assise sfilano un’altra epoca e tanti dubbi, si rinnova «il dolore che non passa» della sorella di Simonetta e la rabbia di Busco per l’accusa «di un delitto infamante che non ho mai commesso». E col tempo, chissà se la verità si allontana o si avvicina, se quel che resta della verità può bastare per una condanna. Comunque sia, col tempo il giallo della giovane assassinata nel condominio di Prati si è intrecciato con altri misteri, l’ultimo il suicidio di Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile, avrebbe dovuto testimoniare due giorni dopo. Ancora po’ di verità se n’è andata con lui e un’altra inchiesta è stata aperta, quella per istigazione al suidicio.
Simonetta. Poche macchie di sangue e il corpo di una ragazza dissanguata, la violenza ossessiva di 29 coltellate e la maniacale pulizia di chi voleva cancellarle senza lasciare traccia. L’appartamento al secondo piano, scala B, sede dell’Aig (una società che si occupa di ostelli per la gioventù) «sembrava lindo e perfetto - ricorda chi entrò poco dopo il delitto - tutto ci si aspettava percorrendo quel lungo corridoio tranne che di vedere quella scena lì, nell’ultima stanza in fondo». Una stranezza dietro l’altra fino a comporre un mistero lungo quasi quanto la vita di Simonetta, uccisa a 21 anni. Figlia di un autista della metropolitana e di una casalinga, una sorella Paola, bella anche lei, Simonetta amava vestirsi alla moda, andare in pizzeria, uscire con gli amici. E amava Raniero Busco, all’epoca 25 anni e un lavoro all’Alitalia, anche se per lui non era la stessa cosa, «il nostro non era un rapporto sentimentale equilibrato», racconta l’imputato alle sei e mezza della mattina successiva al delitto.
Il datore di lavoro. Dopo un impiego in profumeria, Simonetta si mette a lavorare per Salvatore Volponi, titolare tra l’altro di una società per la quale la ragazza tiene la contabilità degli ostelli. Eppure Volponi non sa l’indirizzo dell’ufficio dove la ragazza andava due pomeriggi a settimana. Almeno questo dice a Paola che lo chiama allarmata, alle 11 di quella sera, per il ritardo della sorella. Appare strano, alla donna, il comportamento del datore di lavoro di Simonetta. «Era più agitato di noi, diceva di non essere mai andato in quell’ufficio», ha raccontato Paola al processo. Testimoni però hanno detto di averlo visto uscire da lì. Tre volte Volponi è stato convocato dai giudici per testimoniare, ha sempre presentato un certificato medico. I giudici gli hanno dato un’ultima possibilità: se non si presenterà alla prossima udienza, il primo ottobre, saranno acquisite le sue precedenti dichiarazioni.
Il portiere. L’appartamento di via Poma è chiuso con quattro mandate, altra stranezza. Chi uccide con tale impeto non ha poi la mente lucida per chiudere al porta. Alle 11,30 di quella notte, dopo molte insistenze da parte di Paola Cesaroni, del suo fidanzato e di Volponi, Pietrino Vanacore, il portiere, e la moglie Giuseppa De Luca, consegnano le chiavi. Il loro comportamento appare anomalo anche ai poliziotti giunti sul posto. I primi sospetti cadono su Pietrino, arrestato tre giorni dopo il delitto per omicidio. Tre anni dopo fu prosciolto e quella decisione divenne definitiva nel 1995, Cassazione. Il 9 marzo scorso, a tre giorni dalla sua prevista testimonianza in aula, si è tolto la vita davanti la spiaggia di Caruggio, vicino Taranto. In mezzo metro d’acqua ha annegato «venti anni di sospetti», come ha lasciato scritto, e alcuni dei misteri di via Poma. Su tutti, il sospetto di non aver detto tutto, di aver taciuto cosa era successo nelle ore successive all’omicidio. «Chi ha ucciso Simonetta ha spinto al suicidio Vanacore», accusa adesso Busco.
Il figlio dell’avvocato. Quel 7 agosto al quarto piano del condominio di via Poma c’è l’architetto Cesare Valle, lo stesso che 60 anni prima ha progettato il palazzo. Nelle indagini resta coinvolto il nipote Federico, al quale i magistrati ritagliano il ruolo del giovane fragile sconvolto dalla gelosia per la relazione (non vera) del padre, un avvocato, con la ragazza che lavorava per gli ostelli. I magistrati provano a processarlo insieme a Vanacore, per l’accusa complice, entrambi vengono prosciolti.
Il fidanzato. Il fascicolo sull’omicidio di Simonetta passa per le mani di cinque magistrati. Gli ultimi ripartono dall’inizio, dal fidanzato di Simonetta. Dov’era Raniero Busco quando Simonetta fu uccisa? Glielo chiedono 16 anni dopo il delitto. «Ero con un amico, Simone». Alibi non confermato da Simone, e poi da lui stesso corretto, «ero a casa». A incastrare Busco - rinviato a giudizio il 9 novembre scorso - le tracce di saliva sul corpetto e sul reggiseno di Simonetta a lui riconducibili, i segni di un morso sul seno sinistro di Simonetta, contestuale all’omicidio e compatibile con l’arcata dentaria dell’imputato, una macchia di sangue sulla porta che non si esclude possa essere di Raniero. Per l’accusa a scatenare la rabbia dell’uomo sarebbe stata la reazione della ragazza al morso sul seno durante un rapporto. Resta da chiarire perché chi ha ucciso con tale impeto abbia pulito con tanta cura l’appartamento, come se fosse sua intenzione far sparire nella notte il cadavere di Simonetta e allontanare le indagini e i sospetti da via Poma. Una preoccupazione che forse Busco non aveva. «Questo processo è assurdo, nessuno vuole la verità - attacca l’imputato - Il ricordo di Simonetta è dolce e doloroso, ma il dolore per la sua fine tragica si somma a quella per la mia condizione di imputato». La sentenza tra qualche mese, 20 anni senza verità.