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 2010  agosto 05 Giovedì calendario

«I PM LENTI SU VENTURA»

Quella bomba arrivò al culmine di una lunga serie di attentati. Esplose all’interno della Banca dell’Agricoltura a Milano. I morti furono 17, 89 i feriti. Poi, arrivarono altre bombe e altri morti. Le indagini e i processi su piazza Fontana furono lunghi e complessi ma alla fine - e nonostante i luoghi comuni che vogliono impunite le stragi e ignoti i colpevoli - la magistratura è riuscita a inchiodare alle proprie responsabilità gli ideatori di quelle trame. E, tra questi, anche Ventura, morto in Argentina dove si era rifugiato e dove si era rifatto una vita. «Abbiamo perso una occasione - riflette Salvini - per arrivare sino in fondo nella ricostruzione della verità».
Giudice Salvini, cosa intende? Le carte processuali, nonostante le assoluzioni, su piazza Fontana parlano chiaro.
Infatti, dubbi sulle paternità politiche e organizzative della strage non ce ne sono più. Le stesse sentenze milanesi che hanno assolto nel 2004 gli ultimi imputati dicono che Freda e Ventura, non più processabili, erano storicamente colpevoli e che ad agire, al di là di chi materialmente depositò la borsa, fu l’intera struttura di Ordine Nuovo con la copertura del Sid di Maletti. Ma ora, con la morte degli ultimi protagonisti, si sta perdendo la possibilità di sapere di più sui piani più alti. La strage, non dimentichiamolo, fu decisa a Roma.
Cosa si poteva fare ancora?
Il 12 dicembre scorso è stato l’anniversario più sentito. Erano passati 40 anni e nonostante ciò l’attenzione fu grande. L’avvocato Sinicato, rappresentante delle vittime, depositò in procura un’ampia memoria chiedendo che le indagini fossero riaperte perché in questi ultimi due o tre anni erano emerse altre testimonianze e altri documenti, alcuni provenienti dall’indagine parallela su piazza della Loggia a Brescia che è ancora in corso, e altri quasi per forza propria, come se la verità bussasse. E le novità riguardavano proprio Ventura e le persone attorno a lui, sia giudicate sia mai giudicate.
Di cosa si trattava?
Tra le altre cose, era emerso che nell’agenda di Ventura c’erano appunti mai notati dall’accusa e sbadatamente non portati in Corte d’Assise, del 1969 e relativi a Paese, una località alle porte di Treviso dove c’era il casolare gestito da Freda e Ventura nel quale erano custoditi esplosivi, armi e la macchina stampatrice del gruppo. L’avvocato Sinicato aveva fatto istanza per la riapertura delle indagini e anche io avevo segnalato ai colleghi di Milano questa necessità. Stavano emergendo novità anche dal generale Maletti, latitante in Sudafrica ma desideroso di parlare. E Paolo Cucchiarelli, nel libro-inchiesta Il segreto di piazza Fontana, ha raccolto la testimonianza della presenza di Ventura a Milano l’11 dicembre con le borse da consegnare agli esecutori materiali.
E come è andata?
L’istanza della parte civile non ha avuto risposta. E neppure la mia lettera.
Che idea si è fatto su questo silenzio?
Difficile rispondere. Diciamo che in altre indagini - penso a Calabresi, al caso Abu Omar, alle nuove Br - le autorità inquirenti di Milano hanno profuso il massimo impegno mettendo in campo i loro uomini più esperti mentre su piazza Fontana in questi ultimi anni le cose sembrano essere andate diversamente. Ciò che però mi pare chiaro è che, almeno in questo caso, è difficile parlare di responsabilità dei servizi segreti e di forze oscure, è meglio guardare in casa nostra.
E, però, i servizi segreti in questa storia sono sempre stati ben presenti.
Già, Ventura è un elemento centrale anche perché era lui che a Roma teneva i contatti con Guido Giannettini, ovvero il Sid, quindi il ministero della Difesa. Lo Stato, insomma. Era lui che viaggiava, Freda no. La specialità di Ventura era di travestirsi da editore di sinistra nell’ottica dell’infiltrazione e della confusione. Ma Ventura, velleitario e istrionico, era anche un uomo fragile. A Catanzaro fece parziali ammissioni, confessando gli attentati precedenti, quelli alla Fiera campionaria, ai treni, alla stazione centrale, dicendo però che, dopo, piazza Fontana l’aveva vista soltanto da lontano. Però accennò a riunioni con personaggi importanti. E fu una sorta di messaggio, come a dire: se arriva l’ergastolo parlo e dico il resto.
Insomma, era l’elemento debole del gruppo.
Già, e anche per questo sarebbe stato essenziale parlargli.
Ma chi era Ventura?
Era un editore di Treviso che si unì a Freda nella cellula di Ordine Nuovo di Padova. I due, in quel casolare al quale ho accennato, stamparono anche i volantini dei Nuclei di Difesa dello Stato che poi inviarono a tutti gli ufficiali del Veneto per far scattare il golpe dopo le bombe. Ordine Nuovo voleva scatenare un intervento altrui. Ed erano convinti che questo li avrebbe portati in alto, magari ad occupare posti di potere.
E invece è finito a Buenos Aires a gestire un ristorante.
Nelle ultime indagini era emerso ciò che lo inchiodava definitivamente alle sue responsabilità anche per piazza Fontana. Certo, a Catanzaro per piazza Fontana ci fu l’insufficienza di prove. Poi, però, nel 1995 Tullio Fabris, l’elettricista che fornì i timer, raccontò che pochi giorni prima della strage nello studio di Freda spiegò a lui e a Ventura come funzionavano quei congegni. Non lo aveva detto prima perché era stato minacciato. Nella mia indagine invece decise di parlare. Ecco, se quel racconto vi fosse stato a Catanzaro, Freda e Ventura sarebbero stati condannati. E lo ha scritto anche la Corte di Assise di Milano. Ormai, però, non erano più giudicabili.
Cosa resta di quella stagione?
Piazza Fontana ha avuto l’effetto perverso di inquinare il rapporto di fiducia tra Stato e cittadini, creando un clima di sospetto che dura ancora oggi. Ha cambiato il sentire comune e per questo è imprescrittibile.