Andrea Di Consoli, Il Riformista 5/8/2010, 5 agosto 2010
UN POETA IN PERIFERIA
Si è spento martedì sera, a Milano, il poeta Luciano Erba. Era nato a Milano il 18 settembre del 1922, e lì, al liceo Manzoni, aveva avuto come insegnante, ma solo per un anno, il poeta Vittorio Sereni, col quale, nel 1952, rientrava, insieme a Giorgio Orelli, Roberto Rebora, Nelo Risi e Renzo Modesti, nella ristretta cerchia dei nomi antologizzati da Luciano Anceschi sotto la felice formula critico-geografica “Linea Lombarda”.
Erba fu poeta lombardo nella misura in cui accettò, fino in fondo, un fare poesia minima e appartata, strozzata nell’eloquio, antiretorica, nebbiosa, persa e svagata, più che nel centro cittadino milanese, nelle sue periferie povere e meste, nella musica “bassa” delle fabbriche, dei tram, degli umili quartieri (come non pensare al Raboni di “Le case della Vetra?”, a quel Raboni che, nel 1977, a proposito di Erba, Risi e Cattafi, parlò addirittura di “bottega”, di officina poetica?).
Sin dalla prima raccolta poetica, “Linea K” (1951), il canto di Erba si muoveva tra lirismo ironico e lieve e sempre un po’ distaccato, e realismo postbellico, portando alle estreme conseguenze la poetica degli oggetti di Montale e l’estro icastico e preciso di Sinisgalli, che fu, tutto sommato, un grande anticipatore, sia pure da meridionale, della linea lombarda. L’indole distaccata e solitaria si manifestò, in Erba, anche nella scelta degli studi, ché Erba insegnò, a partire dagli anni Sessanta, Letteratura francese in alcune università (Bari, Lecce, Trieste, Bologna, Udine), soffermandosi soprattutto sugli scrittori francesi del XVII secolo, su Cyrano de Bergerac e su Huysmans. Su questo versante, poi, intense furono le traduzioni di Erba, da Ponge a Cendrars, da Gunn a Bryen.
Ma è nella poesia che Erba si è conquistato un posto di primo piano nella poesia del secondo Novecento (Daniele Piccini, nella sua monumentale antologia “La poesia italiana dal 1960 a oggi” (2005), lo antologizza addirittura per primo; mentre Pier Vincenzo Mengaldo, nell’ormai classico “Poeti italiani del Novecento” (1978), parlava di lui come di un esponente “di destra” della linea lombarda: « […] schieramento del quale egli [Erba] costituisce in senso abbastanza proprio l’ala destra, in virtù di una totale messa fra parentesi dell’“impegno” singolare per ostinazione in uno scrittore formatosi durante la guerra e il primo dopoguerra».
Tra le tante raccolte poetiche di Erba ricordiamo almeno le più significative: “Il male minore” (1960), “Il prato più verde” (1977), “Il nastro di Moebius” (1980), “Il cerchio aperto” (1983), “Il tranviere metafisico” (1987), “L’ippopotamo” (1989), “L’ipotesi circense” (1995) e “Remi in barca” (2006). La poesia di Luciano Erba, pur partendo da elementi autobiografici e cronachistici (spesso narrativi), sapeva rovesciarne i punti di partenza in direzione fantastica o visionaria; sapeva, cioè, far percorrere ai suoi versi un perfetto “nastro di Moebius”, per cui, senza mai deragliare, si ritrovavano sullo stesso nastro ma al loro lato opposto, come accadeva ne “Il tranviere metafisico”: «Ritorna a volte il sogno in cui mi avviene / di manovrare un tram senza rotaie / tra campi di patate e fichi versi / nel coltivato le ruote non sprofondano / schivo spaventapasseri e capanni / vado incontro a settembre, verso ottobre / i passeggeri sono i miei defunti. / Al risveglio rispunta il dubbio antico / se questa vita non sia evento del caso / e il nostro solo un povero monologo / di domande e risposte fatte in casa».
Più che insistere sull’ironia nichilistica – il tardo Montale, quello del “Diario del ’71 e del ’72” (1973) – la poesia di Erba preferisce procedere «senza traccia di tappa, di sosta, di partenza, di arrivo», un po’ come accadeva all’ultimo Leonardo Sinisgalli, quello di “Dimenticatoio” (1970), in cui la sfiducia, il non credere, il massimo ridursi di più grandi slanci, si risolveva in sogno spaesante, come un misterioso e indecifrabile acufene insidiato nei suoni esatti della realtà. Scriveva Erba: «Vi era quasi una voce / nel fischio del treno che squarciava / la notte più nera del New Jersey. / Anche oggi questo suono inatteso / così rauco nel cuore della notte / sembra sempre nascondere una voce / pari a un tuono isolato nel pomeriggio / sulle Alpi fiorite di fine estate / a mille altri richiami / a tante risposte senza domanda».
Nell’ultima raccolta di Erba, “Remi in barca”, proprio come in “Dimenticatoio” di Sinisgalli, accadeva una sorta di essenziale commiato dal mondo, un commiato per niente inatteso, in verità, anzi, più volte prefigurato e abbozzato; e proprio in questa smilza raccolta massimamente minuta, Erba ha definito meglio di chiunque altro se stesso (un se stesso scettico, spettatore, ridotto a ombra senza certezze): «Sei come l’ombra / di un vecchio milanese / dice va ben l’istess / e scrolla il capo».
Va ricordato, infine, che Erba pubblicò anche una raccolta di racconti, Françoise (1982), e che una scelta delle sue poesie fu pubblicata, nel 2002, nell’Oscar Mondadori, col titolo Poesie 1951-2001 e a cura di Stefano Prandi.