Varie, 6 agosto 2010
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Gigli Mauro
• Sassari 3 aprile 1969, Herat (Afghanistan) 28 luglio 2010. Artificiere. Morì per l’esplosione di una bomba talebana insieme al collega Pierdavide De Cillis • «[...] Dovevano staccare fili, alleggerire contatti, spostare detonatori, come sempre. Sotto la tuta protettiva, che miracoli non può fare, non c’è il tempo di pensare a nulla, dicono gli esperti. È un duello con l’abilità degli altri, la posta è la vita. Il resto, le altre minacce, le procedure, la sicurezza, in quel momento sono messi da parte, chiusi in una zona sigillata della coscienza, dove già da tempo anche la paura è tenuta prigioniera, perché non faccia tremare le dita nel momento sbagliato. È l’armadietto della sofferenza: the Hurt Locker, come lo chiamano i colleghi americani, immortalati nel film di Katryn Bigelow. I due italiani lo hanno vinto, quel duello. La bomba era disinnescata, forse avevano appena tirato un sospiro di sollievo. Restava da fare un controllo tutto intorno. Ed è stato allora che è esploso il secondo ordigno, il colpo a tradimento, che ha ucciso gli artificieri, ferito il capitano Federica Luciani e un civile afgano. Non avevano abbassato la guardia, senza dubbio: sapevano che poteva esserci un’altra bomba. Ma sapere a volte non basta. [...]» (Giampaolo Cadalanu, “la Repubblica” 29/7/2010) • «[...] Non ne voleva sentire di prendersi troppo sul serio il primo maresciallo Mauro Gigli. Quando gli ufficiali nella base di Herat l’avevano presentato come il maestro degli artificieri, lui aveva reagito alzando le spalle e curvando appena le labbra in una piega ironica. Non gli piaceva l’idea di essere al centro dell’attenzione, preferiva parlare della famiglia. Il giornalista aveva accennato al sistema nervoso d’acciaio richiesto per il suo mestiere, e lui aveva cambiato argomento: “Faccio solo la mia parte, come tutti qui”. Anche alla sera, davanti a un piatto di improbabili spaghetti all’arrabbiata cucinati dal cuoco cingalese in uno dei punti di ristoro di Camp Arena, aveva parlato poco. Gli piaceva ascoltare. Era quel genere di persona che lavorava nell’ombra, per salvare la vita degli altri, con il sorriso sulle labbra. Persino con la tv aveva voluto un ruolo da tecnico, evitando ogni atteggiamento da divo. Alle telecamere del Tg aveva spiegato il disinnesco degli Ied: “Il momento più delicato è quando c’è l’approccio manuale da parte dell’operatore, che deve affrontare l’ordigno. Ogni intervento è a sé, e ogni intervento, dall’attivazione fino alla conclusione, è un susseguirsi di tensione e di adrenalina” [...] inquadrato nel 32esimo Reggimento genio con la Brigata Taurinense, viveva a Villar Perosa con la moglie e due figli piccoli. Veterano di diverse missioni in Afghanistan, era stato persino in Mozambico. [...]» (g. cad., “la Repubblica” 29/7/2010) • «[...] L’ultimo pensiero di Mauro Gigli era rivolto ai compagni: un attimo prima di venir travolto da un’esplosione a tradimento, l’artificiere italiano si era preoccupato di far allontanare gli altri militari, per occuparsi delle nuove minacce solo con l’altro specialista, Pierdavide De Cillis. Anzi, secondo le ricostruzioni Gigli ha fatto scudo con il proprio corpo al capitano Federica Luciani, ferita leggermente dalle schegge. Il decano degli artificieri aveva capito che c’era qualcosa che non andava: forse aveva visto un filo in più, forse semplicemente era stato l’istinto a fargli capire che quella alle porte di Herat era una trappola. E ha fatto quello che doveva: ha sgombrato d’urgenza i commilitoni, preparandosi col compagno a rischiare la vita, perché quello era il suo ruolo. “Gigli ha alzato le braccia, si è girato e con sprezzo della propria vita ha fatto allontanare gli altri, rimanendo sul posto per intervenire insieme all’altro specialista”, ha raccontato [...] al Senato il ministro della Difesa. Ma la storia non ha stupito chi Mauro Gigli lo conosceva da vicino. “Mi torna alla mente quella volta che la bomba era in fondo a un tombino - racconta un commilitone al telefono dall’Afghanistan - Mauro ha fatto intervenire il robot, che ha smontato l’ordigno. Poi, però, bisognava entrare nel pozzetto per controllare e recuperare l’esplosivo. Mauro aveva indosso la tuta, ha provato: niente da fare. Si è guardato intorno, poi ha detto: va bene. Si è tolto le protezioni, è entrato nel pozzetto, ha tirato fuori la bomba. Poi ha spiegato: me lo sentivo, ormai era disinnescata. E poi, non la potevo certo lasciare qui. Chissà, la potevano prendere i bambini...”. [...]» (Giampaolo Cadalanu, “la Repubblica” 30/7/2010).