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 2010  agosto 06 Venerdì calendario

Intervista all’editore Sergio Fanucci - Due settimane fa, sul Giornale , abbiamo stroncato un libro pubblicato da Fa­nucci, The Box di Ri­chard Matheson, di­cendo che la raccolta di racconti è bellissima,ma curata male

Intervista all’editore Sergio Fanucci - Due settimane fa, sul Giornale , abbiamo stroncato un libro pubblicato da Fa­nucci, The Box di Ri­chard Matheson, di­cendo che la raccolta di racconti è bellissima,ma curata male.L’edito­re si è giustamente offeso e, in una lettera privata, ci ha spiegato le sue ragioni. Chiedendoci alla fine per­ché «voi giornalisti dovete sempre colpire per creare polemica?». Partiamo da qui: Sergio Fanucci, lei fa l’editore da 20 anni, e l’am­biente lo conosce bene.Che cosa pensa del giornalismo culturale italiano? «Trovo quelle di Repubblica trop­po ancorate a un vecchio modello di lettore colto, non riescono a coglie­re l’importanza di una letteratura apparentemente di evasione, pro­prio non la vedono. Il Corriere della sera si rivolge a un target molto adul­to, dimentico dei lettori più giovani e curiosi di cose nuove. Scrivono di commemorazioni o anniversari, concentrati in quello che è stato e non tanto in quello che sarà. La Rete ha a volte uno sguardo più acuto, ma purtroppo l’informazione digita­le è piena di­baggianate e può scrive­re anche chi non sa nulla, come spes­so succede». Lei pubblica moltissima narrati­va straniera, americana in parti­colare, pur non disdegnando ogni tanto di uscire con un titolo italiano.Cosa pensa della lettera­tura americana rispetto alla no­stra? «L’America è e sarà sempre un Pa­e­se ricco di contraddizioni e di posi­zioni fantasiose e divertenti, ma an­c­he capace di intuizioni e analisi illu­minanti. Questo essere così spaval­di e anticonformisti li rende pieni di stimoli e capacità, anche letterarie. La loro letteratura ha da sempre in­fluenzato il resto del mondo, è stata importata e copiata, ne è diventata modello o totem, ma è stata anche criticata e vivisezionata. Noi siamo sempre stati un Paese più occupato a raccontare i fatti nostri, a guardare il nostro ombelico. Così abbiamo esportato poco, tranne casi eccezio­nali come Calvino, Buzzati, Scia­scia. Oggi la nostra letteratura è mol­t­o letta in Italia e comincia a farsi stra­da in Europa, questo è un buon se­gno ». Cosa le piace? «Mi piace molto Tullio Avoledo e mi piacerebbe averlo in catalogo, co­sì come Niccolò Ammaniti. Negli States, una voce miracolosa è quella di Chris Abani, mentre è da tener d’occhio Susy Meyers. È una 26en­ne californiana esordiente piena di talento e acume. Lo sto leggendo in questi giorni e mi sto commuoven­do, sembra un film d’altri tempi». Buttafuoco, Piperno, Saviano: li conosce, li ha letti, le piacciono? «Letti,un po’ per curiosità e un po’ per capire. Buttafuoco e Piperno non mi piacciono, mentre Saviano è una vita narrata, sfugge a qualsiasi giudizio soggettivo, sono pagine di un’Italia che nessuno vorrebbe ave­re. Non sono libri, ma pugni nello stomaco con cui devi fare i conti. Al­la fine ne esci pesto e consapevole che puoi prenderle, sempre». E il (prima)fascista e (poi)comu­nista Antonio Pennacchi che ha vinto lo «Strega»? «Penso che la “strascicata agro­pontina” non lo fa diventare simpati­co, che Canale Mussolini è un ro­manzo fascista e che il primo amore non si scorda mai. Non so, ma in Ita­lia si parla troppo di Duce o Mussoli­ni, ora se ne scrive pure dicendo “Ma almeno ha fatto qualcosa di buono”, quasi a voler giustificare le nefandezze che ha combinato. Peri­coloso e preoccupante. E poi Pen­nacchi scrive come parla...». E i premi letterari in genere? I suoi libri ne hanno vinti molti ne­gli ultimi anni? «In Italia i miei libri hanno vinto diversi premi per la letteratura per ragazzi,come l’Andersen o il Banca­rellino. Per adulti, a parte un paio di selezioni nei 12 dello Strega (que­s­t’anno per la prima volta con un ro­manzo per ragazzi, Bambini nel bo­sco di Beatrice Masini), l’unico pre­mio che ho vinto è stato l’Opera Pri­ma del Campiello con Senza coda del giovane riminese Marco Missiro­li ». E lo Strega? «È egemonizzato dai grandi edito­ri. Lei pensi che molti voti sono pro­prio degli editori - che quindi vota­no se stessi - o dei loro autori, che per ordine di scuderia votano l’edi­tore disinteressandosi del romanzo presentato. Se fossi uno di loro mi annoierei; possibile che non gli ven­ga mai voglia di cambiare?». Il genere letterariodi cui la sua ca­sa editrice è speci­alizzata pare es­sersi strappato di dosso l’etichet­ta di letteratura bassa. Si è davve­ro abbattuto il muro tra letteratu­ra di genere e letteratura tout court ? «Direi di sì, ed era ora. In Francia da sempre il noir ha raccontato con sapienza e precisione la realtà quoti­diana, regalandoci sprazzi di verità sacrosanta - penso a Manchette o a Héléna- costringendoci a fare i con­ti con la nostra anima nera. In Ameri­ca, Philip K. Dick, re della science fic­tion , ha illuminato il nostro futuro scrivendo non di marziani verdi e brutti, ma di esseri alieni tanto simili a noi da essere come un nero per un bianco, un omosessuale per un ete­ro. Figli dello stesso mondo seppur diversi. Il fantasy di Silvana De Mari, autrice straordinaria per la miseri­cordia verso i suoi protagonisti, tra­scende il genere stesso e diventa un ritratto politico, sociale, umano, una storia d’amore, morte, riscatto, di genitori e figli, eroismo e fede in un romanzo di oltre 700 pagine, L’ul­tima profezia del mondo degli uomi­ni , un capolavoro che pubblicherò a fine settembre.Dirò di più:l’elemen­to straniante di un genere letterario, che sia noir o fantascienza, distorce il punto di vista di una storia e que­sto dà al lettore più esigente uno sti­molo in più e dà anche all’autore un’ulteriore occasione per meravi­gliare chi lo legge». Come sta la casa editrice Fanuc­ci? E l’editoria italiana? È vero che in questo sistema editoriale i grandi inglobano tutto, anche le idee? «Stiamo bene,grazie.Visto soprat­tutto quello che gira. Per vendere li­bri non siamo costretti a confeziona­re e chiamare romanzo un insieme di lettere e disegnini di due autori best-seller che, pur se si piazza pri­mo in classifica e vende 300mila co­pie, ti rovina la faccia e manda al­l’aria­quello che tu hai sempre chia­mato progetto e nel rispetto del qua­le hai fatto scelte dolorose ma condi­vise con i lettori. È questa la differen­za tra chi si chiama editore, come il mio marchio, e chi invece è un sem­pli­ce player e potrebbe vendere pen­tole. Non dipende dalle dimensioni delle aziende, se sono o meno un gruppo editoriale». E da cosa dipende, allora? «Dalla propria coscienza.L’edito­re ha un progetto chiaro e fa un pat­to­con i lettori che lo seguono e lo sti­mano, lo criticano e lo amano, sono lettori (re)attivi che vivono le sue scelte, fanno parte della sua azien­da. Il player insegue invece il grande numero a tutti i costi, calpesta spes­so la propria dignità, giustifica tutto per il profitto e manda al diavolo il motivo principale che ci spinge in questo lavoro: toccare con un libro le corde dell’anima,perché un libro arriva dove tv e giornali non arriva­no. Pensate al successo della Casta di Rizzo e Stella, o a Report di Milena Gabanelli, bravissima. Ebbene, sot­to forma di libro, quel malcostume ha trovato milioni di lettori, e le assi­curo che quando leggi qualcosa e non lo ascolti solamente, ti entra dentro e lì rimane. Sta a noi editori dare ai lettori idee e stimoli che pos­sano crescere in loro e arricchire la loro esperienza. E va da sé che in questo mondo dell’editoria queste idee rischiano di rimanere soffocate a causa di politiche editoriali di player avidi e insensibili. È ovvio che se il player è poi un grande editore... allora è un bel problema». Ormai non si parla d’altro che del rapporto tra «vecchia» edito­ria ed e-book. Lei che ne pensa? «Mi sembra un po’ tutto sopra le righe. Roberto Santachiara, agente di alcuni autori italiani e non, dice di non voler cedere i diritti e-book di libri già pubblicati se non davanti a un accordo più vantaggioso per gli autori di quello pensato dagli edito­ri: anticipi, percentuali sulle vendite e così via. A New York Andrew Wylie lancia addirittura una sua casa edi­trice digitale inimicandosi tutta l’editoria americana e a noi editori all’estero propone condizioni insoli­te. Le piattaforme digitali che do­vrebbero “ distribuire”gli e-book,os­sia materialmente un luogo in rete dove ti colleghi e te lo scarichi, chie­dono una percentuale molto alta a noi editori per i costi che hanno e ad­­dirittura un’esclusiva... Insomma, sembra che tutti vogliano accapar­rarsi la fetta più grande di una torta che deve essere ancora cucinata!». E da noi? «Mi pare che con l’arrivo degli e-book in Italia stia saltando quel patto di rispetto e stima e quella complicità che si crea tra editore e autore. Non so se invece è tutta una manovra fatta da alcuni per un sem­plice desiderio di protagonismo e che gli autori non condividono. In America il mercato degli e-book ha avuto una crescita importante, ma c’è un’abitudine alla lettura e una curiosità e passione che in Italia mancano. Lei crede veramente che tra cinque anni i nostri lettori non compreranno più libri e scariche­ranno tutto dal web? La mia paura è che se si corre, si rischia di realizzare un prodotto che poi può essere co­piato illegalmente e allora addio ad anticipi, venduti, percentuali... Guardate che cosa è successo con la musica...». Mi scusi, ma questi famosi salotti intellettual-editoriali,da voi a Ro­ma esistono o no? Tutti dicono che ci sono, ma tutti negano di farne parte... «Le garantisco che non ne fre­quento, ma penso esistano vera­mente. Io sono un tipo piuttosto soli­tario, partecipo raramente anche a convegni o presentazioni, ho troppi libri da leggere per perdermi su qual­che divano».