Luciano Fruttero, Massimo Gramellini, La Stampa 6/8/2010, pagina 72, 6 agosto 2010
STORIA D’ITALIA IN 150 DATE
12 settembre 1919
Il Comandante
Il poeta Gabriele d’Annunzio giunge nella città dalmata di Fiume accolto in trionfo dalla maggioranza dei suoi abitanti e da numerosi volontari che pretendono l’annessione alla patria. Il Comandante, come sarà sempre chiamato, si presenta al balcone e proclama che Fiume è ormai a ogni titolo una città italiana. Ma le cose sono molto più complicate. A Versailles i capi di Stato riuniti per decidere le sorti dell’Europa stremata dalla guerra non intendono concederci la Dalmazia. Fiume è presidiata da soldati francesi, inglesi, americani e italiani che tuttavia non si oppongono all’ingresso dei «legionari», ai quali ben presto si uniscono diverse unità delle nostre truppe. D’Annunzio insedia una giunta e rifiuta, con veementi proclami, ogni trattativa con il commissario generale Badoglio, nominato dal governo Nitti (che il poeta per spregio chiama Cagoia). La confusione è massima. Gramsci e Lenin elogiano il Comandante come vero rivoluzionario, mentre Mussolini temporeggia, ma alla fine il Vate lo costringe a lanciare una sottoscrizione in suo favore che raccoglie tre milioni di lire. Così si va avanti per mesi e mesi. Il governo ha messo il blocco alla città, ma si tratta di un blocco all’italiana: entra ed esce chiunque. A Fiume accorrono reduci di guerra, ex arditi, avventurieri, prostitute e adolescenti entusiasti. Badoglio si dimette ed è sostituito dal generale Caviglia, ma nulla cambia. Tutte le aperture offerte dal disprezzato governo liberale incontrano i fulmini del poeta.
Si tenta la via del plebiscito ma D’Annunzio, visti i primi risultati, preferisce bloccare tutto. Per mancanza di viveri quattromila bambini devono essere sfollati e frattanto a Rapallo (1920) Italia e Jugoslavia si accordano per un compromesso ragionevole. Fiume sarà città libera. Gli annessionisti più fanatici stilano con D’Annunzio la Carta del Carnaro, sorta di costituzione di un libero Stato che come primo atto ufficiale riconosce l’Unione Sovietica. Ma la popolazione comincia a essere stanca di un confronto che si fa ogni giorno più convulso, tra appelli, dimissioni, defezioni, rimpalli. Arriva l’ultimatum del governo: l’esercito di volontari dovrà deporre le armi per evitare l’intervento armato e il conseguente bagno di sangue. La risposta naturalmente è negativa e l’indomani una corazzata comincia il bombardamento della città, mentre le truppe regolari entrano in azione. La resa è inevitabile. D’Annunzio se ne va a Venezia amareggiato e consapevole che la sua parabola di poeta-guerriero è alla fine. I «legionari» tornano alla cosiddetta vita civile, che in questo caso significa unirsi alle due estreme: anarchici e bolscevichi da una parte, nazionalisti e squadristi dall’altra. La roboante magniloquenza di quei giorni («A chi Fiume?» «A noi!») segnerà per vent’anni il clima politico del nostro Paese.