Giulio Giorello, Corriere della Sera 6/8/2010, 6 agosto 2010
LE REGOLE NON SERVONO (LO INSEGNA LA SCIENZA)
Com’è che s’impara a giocare a scacchi o magari a scopone scientifico? Verrebbe da dire: basta leggersi uno dei tanti manuali e imparare le regole. Ma è sufficiente qualche partita per rendersi conto che così facciamo poca strada. E come impariamo a parlare le varie lingue, che so io, l’inglese o l’arabo? Mandare a memoria le varie grammatiche anche qui non aiuta più di tanto. Invece, «s’impara a parlare e a capire la lingua come s’impara a camminare», così scriveva nel suo capolavoro del 1905, Conoscenza ed errore, Ernst Mach, fisico e fisiologo. Negli anni Trenta il filosofo Ludwig Wittgenstein dichiarava che le regole «non valgono granché»: non costituiscono la spiegazione, bensì vanno spiegate a loro volta.
Sembra una questione di semplice senso comune. Invece, un pensatore acuto e attento come Mach insisteva che questa è la condizione abituale della stessa impresa scientifica. Le mosse dei ricercatori sono essenzialmente un’attività pratica e richiedono abilità non troppo dissimili da quelle di un bravo artigiano, di un grande artista o di un campione di scacchi. E se talvolta anche le macchine che noi costruiamo sanno comportarsi così (per esempio, un programma di computer riesce a sconfiggere uno scacchista come Kasparov), è perché anch’esse hanno ricevuto un addestramento sulla base di singole partite, per poter poi decidere di volta in volta la strategia migliore. L’imprevisto non può essere mai addomesticato da questa o quella regola ed è il bello della ricerca scientifica. La caccia che si svolge nella scienza richiede al contempo coraggio e modestia. Il soggetto conoscente deve riconoscersi oggetto tra gli altri oggetti, parte di quella natura che vuole studiare. Non un despota che piega ai suoi voleri le cose del mondo, ma una cosa tra le altre cose che gettano le une sulle altre il loro sguardo muto. È così che il mondo diventa «accessibile agli esseri umascienze sociali. Come ha scritto uno dei nostri migliori studiosi di Wittgenstein, Aldo Giorgio Gargani, quella Vienna si era ormai tramutata nel «laboratorio della distruzione mondiale». Tuttavia, non si trattava solo di liquidare il passato, bensì d’impadronirsi di nuovi strumenti per giocarsi il futuro, a cominciare proprio dalla scienza. Nelle parole del grande e sfortunato fisico Ludwig Boltzmann (morto suicida a Duino, nei pressi di Trieste, nel 1906): «È indubbiamente vantaggioso avere il maggior numero possibile di immagini dei fatti». Nel 1933 Albert Einstein aveva ripreso tale spunto, mostrando che era inutile, se non addirittura dannoso, lasciarsi abbagliare dal miraggio di un fondamento certo e definitivo nella comprensione della natura: per qualsiasi insieme di fatti «possiamo indicare più basi teoriche essenzialmente differenti, ciascuna delle quali nelle sue conseguenze risulta largamente in accordo con l’esperienza». Questo sapere «senza fondamenti» non significava una fuga dalla responsabilità scientifica, quanto una maggiore ricchezza d’intelligenza e di vita. Ha scritto Musil nell’Uomo senza qualità: «Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima… è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità».
Se mi è lecito concludere con un ricordo personale, mi piace qui citare il fatto che proprio da questa frase Gargani prese spunto in una delle sue ultime conferenze, invitato all’Università degli Studi di Milano. Nel romanzo, Musil mostrava tra l’altro che «amare è tutt’altro che semplice»; Giorgio faceva delle parole del narratore austriaco il filo rosso per mostrare che far filosofia è altrettanto complesso, specie se si vuole una filosofia capace di non rassegnarsi al «senso d’impotenza davanti all’ineluttabile». Così, la riconquista del senso della possibilità, che comincia entro i confini dalla scienza rigorosa, diventa una rivendicazione della propria e altrui libertà. Gargani si è spento poco più di un anno fa. Continua a mancarci. ni» come scrivevano (1929) un fisico, un matematico e un sociologo (Rudolf Carnap, Hans Hahn e Otto Neurath) in quel Manifesto del Circolo di Vienna che rappresenta la magna charta del Neopositivismo. Oggi si dà troppo per scontato che questo indirizzo di pensiero abbia drasticamente separato il mondo dei fatti da quello delle emozioni, l’ambito della logica da quello della passione; ma se lo scienziato ha successo, ciò capita «non perché il suo sguardo emerga da una sorgente incontaminata che sta prima delle cose, ma perché esso è frammento della natura che osserva» come scrive un attento studioso della cultura viennese del primo Novecento, Luca Guzzardi, nel suo recentissimo Lo sguardo muto delle cose (Raffaello Cortina).
Mach, Wittgenstein e gli altri intellettuali che abbiamo citato facevano parte dell’«Austria felice», anche se alcuni venivano dai margini dell’impero o da Paesi vicini. Avevano finito per ritrovarsi in quella che, non senza un pizzico di sarcasmo, Robert Musil chiamava «la santa Vienna», punto d’incontro di tante esistenze bizzarre e d’idee ancor più singolari, che però sembrava aver perduto qualsiasi coerenza. Non solo perché alla fine della Prima guerra mondiale l’impero non c’era più e i viennesi, da sudditi degli Asburgo, erano diventati cittadini di una repubblica; ma perché nella scienza, nell’arte e nella letteratura si faceva esperienza di una vera e propria perdita della certezza — dai lineamenti deformati nelle figure di Egon Schiele alla messa in crisi dei principi fondamentali della fisica tradizionalmente insegnata, per non dire delle emergenti novità politiche verso le quali quei «cittadini» s’incamminavano quasi come sonnambuli, come recita il titolo di una grande opera di Hermann Broch. Ma quei curiosi scienziati e filosofi, sospesi tra il rigore della logica e le inquietudini della filosofia, si guardavano bene dal rimpiangere la «felicità» assicurata dai vecchi dogmi e regole delle burocrazie travolte dalla storia. Miravano invece a inedite concettualizzazioni in matematica, ad ardite teorie fisiche che erodevano l’idea di oggettività, a nuovi modelli d’intervento economico nonché a una ridefinizione delle stesse