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 2010  agosto 06 Venerdì calendario

GHEDDAFI, SOCIO SCOMODO MA NECESSARIO

Così «per sport», come si dice, ha giusto lo sport. Il 7,5% nella Juventus e, lì, un consigliere talmente biondo che a guardare le foto uno lo scambia per tedesco. Invece è libico doc, Khaled Fared Zentuti, e nel board dei bianconeri difenderà pure l’investimento made in Tripoli: ma più che da calcoli economici il colonnello Muhammar Gheddafi fu mosso, quando decise l’ingresso nel club (secondo socio subito dopo i «vecchi conoscenti» Agnelli), dalla dichiaratissima passione calcistica del figlio El Saady. Dopodiché, stop. Tutto il resto — compreso il 2% di Unicredit che, aggiunto al 4,9% già detenuto, da ieri fa della Libia il primo azionista di Piazza Cordusio — obbedisce a un’ovvia strategia. Finanziaria. E geopolitica.
Saranno di sicuro, gli uomini di Gheddafi, «un azionista molto rispettoso e attento solo allo sviluppo positivo dell’azienda», per dirla con Alessandro Profumo (che tra i vicepresidenti ha il governatore della Banca centrale Fahrar Omar Bengadara). E certo nessuno può sostenere che non valga, ancora, la definizione che di loro diede Giovanni Agnelli negli anni (1976-1986) in cui senza i petrodollari di Tripoli la Fiat non si sarebbe salvata: «I libici? Si comportano come banchieri svizzeri». Vero, verissimo. Però proprio questo è il primo presupposto della strategia.
In politica, per l’Occidente (Italia compresa, anche se qui si oscilla tra amicizia e odio storici: e nell’era di Silvio Berlusconi sono i tributi a prevalere), il Colonnello resta «il terrorista di Lockerbie», «l’uomo che ha flirtato con Al Qaeda», «il dittatore». In economia, per tutti, è comunque il leader che ha le chiavi di una cassaforte strabordante di petrolio e gas. Per cui si può pure spiegare con la solita (comunque vera) storia del pecunia non olet il fatto che un alleato politicamente scomodo diventi, quando la liquidità è merce scarsa e i pochi che ce l’hanno potrebbero comprarsi il mondo, un socio economicamente comodissimo. Ma la Libia, questa carta, se la gioca alla grande. I suoi istituti non fanno del tutto gli sleeping partner. I «banchieri svizzeri», però, sì: soldi in cambio di rendimenti. Nel caso specifico non solo economici (in Italia, in passato, ci furono pure investimenti fallimentari: leggi Cotonificio Olcese). È un rendimento anche la «rispettabilità» ottenuta nei (e dai) consigli d’amministrazione. Tanto più se quella «rispettabilità» dà un ritorno, poi, sul tavolo geopolitico.
Insomma: ci sarà qualche ragione se, per dire, Gheddafi si è comprato persino il 3% del Financial Times senza che nessuno battesse ciglio. Certo qui, in Italia, di ragioni ce ne sono ancora di più. Un anno fa, durante la visita delle polemiche (ricordate il ritardo a Montecitorio e il convegno che Gianfranco Fini annullò, o la provocatoria foto appuntata sul bavero della giacca?), sotto la sua tenda beduina sfilarono in tanti. Politici. E industriali. E banchieri. Tra quel parco romano e l’Auditorium di Confindustria, dal Colonnello passarono Alessandro Profumo, Cesare Geronzi, Marco Tronchetti Provera, Emma Marcegaglia, Fulvio Conti, Pierfrancesco Guarguaglini, Gabriele Galateri. E Paolo Scaroni, ovviamente. Perché in passato sarà anche stata, Tripoli, azionista di Fiat (di cui poi ricomprò una piccola quota) o di Banca di Roma. E oggi, certo, ribadirà continuo interesse per Enel, Telecom, Impregilo, Terna. Ma resta l’Eni, il filo rosso di ogni rapporto Italia-Libia.
Tripoli, dell’Ente Nazionale Idrocarburi, ha ufficialmente meno del 2% (in realtà tra le partecipazioni varie arriverebbe, si dice, vicino al 5%). E l’Ente nazionale idrocarburi, da Tripoli, ricava grosse fette dei propri utili. Dalla Libia pompa già il 30% del greggio che l’Italia importa, sul gas c’è da quattro anni il il metanodotto diretto con la Sicilia. E con concessioni appena «allungate» di 25 anni (in cambio, investimenti per 20 miliardi in 10 anni).
A questo punto, è probabilmente complicato calcolare quanto siano davvero i profitti che anche i libici ricavano dalla loro fattura petrolio-gas intestata agli italiani. Di sicuro sono, per ora, molto più alti di quelli che le aziende nazionali sperano di ottenere dai futuri investimenti «là». E sono comunque poi quelli i soldi che, in qualche misura, ritornano «qua» sotto forma di partecipazioni. La Fiat ieri. Unicredit oggi. Probabilmente altro domani. Dopodiché, «azionista molto rispettoso» quanto si vuole, è vero pure che Tripoli non è sempre «socio dormiente». Ad Agnelli, ancor prima dell’ingresso di Lafico in Fiat, chiesero la testa di Arrigo Levi: La Stampa (che Levi allora dirigeva) aveva pubblicato un articolo-satira che il Colonnello non gradì. Bastò rispondere no. All’Avvocato, almeno.