Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 6/8/2010, 6 agosto 2010
LA MOLTIPLICAZIONE DEI QUATTRO GATTI
Trentatré deputati, dieci senatori più, a sorpresa, Chiara Moroni. Quanto basta perché gli amici si diano di gomito dicendo che anche Gianfranco Fini (nella scia di Berlusconi si capisce) un miracolo l’ha fatto: la moltiplicazione dei gatti. Dovevano essere quattro: sono 44. Giusti giusti per intonare irridenti la canzoncina: «Quarantaquattro gatti, / in fila per sei col resto di due, / si unirono compatti...». Unica differenza: quelli erano compatti in cerca di un padrone, questi dicono di fuggirne. Sono anni che la politica italiana, come ricorda del resto la celebre rubrica di Giampaolo Pansa, è un bestiario. «Vedo il cavallo, non la cavallinità», spiegava Mino Martinazzoli a Ciriaco de Mita. «Se voglio vedere il cavallo devo prima capire cos’è la cavallinità», rispondeva quello. «Il signor Berlusconi è un serpente che avvelena la democrazia», sibilava Alessandra Mussolini prima di far la pace. «Musso da noi vuol dire somaro. Vai a studiarti Gramsci, somaraccio! Ne ho abbastanza del raglio degli stalinisti ultranazionalisti. Hi ho, hi ho...», gridava Umberto Bossi. «Di Pietro è una troia dagli occhi ferrigni», scriveva Giuliano Ferrara.
Per non dire dei continui rimandi a oche, i maiali, pidocchi, anatre, caproni, caimani, tope e vacche. Tantissime vacche. Fino al paragone lanciato da Patrizia D’Addario in un’intervista al Sunday Times, paragone che non si sa se abbia irritato o sotto sotto lusingato il Cavaliere: «Non ho mai dormito tutta la notte. Era instancabile. Un toro».
Nessuno, però, nella politica italiana, ha avuto la fortuna dei gatti. Meglio: dei quattro gatti. Citati mille volte, a proposito o a sproposito. Ed ecco l’aennino Riccardo Pedrizzi irridere al Gay Pride: «Quattro gatti che reclamano "diritti". Ma quali sono questi diritti?». Veltroni a quanti lanciavano allarmi sulla manovra fiscale del comune di Roma: «I soliti quattro gatti». La forzista Anna Bertolini contro Romano Prodi alla vigilia della sua seconda vittoria (striminzita) contro Berlusconi: «Il Professore ha fatto splash. E’ un leader lesso. Ha anestetizzato perfino i quattro gatti di Piazza del Popolo». Umberto Bossi contro gli organizzatori di una grande manifestazione avversa alla secessione: «I padani sono 30 milioni. In piazza, ieri, c’erano 500 mila persone, in gran parte venute da fuori. Era una manifestazione ’’Triculore’’, ma rispetto ai processi storici, mi spiace, 500 mila persone sono quattro gatti». Irene Pivetti, appena espulsa dalla Lega, contro lo stesso Bossi che aveva radunato i suoi in piazza Duomo: «Sono stata lì a volantinare e ho visto che sono quattro gatti, forse meno». Fino all’invettiva del rifondarolo Francesco Caruso: «Ci sono 4 milioni di consumatori di marijuana in Italia: i quattro gatti che Fini minaccia di mobilitare per difendere la sua legge non fanno paura a nessuno».
E come dimenticare i maitres-à-penser che hanno sdottoreggiato sul tema? Erminio "Obelix" Boso si avventurò in una comparazione "feliniana": «Siamo una massa enorme anche se come al solito diranno che eravamo quattro gatti. Ma io a Prodi mando a dire che i gatti appartengono alla stessa famiglia delle tigri, e ci sono le tigri delle nevi, animali che non attaccano mai di spalle ma sempre di fronte». Ignazio La Russa, sferzante col leghista Luigi Peruzzotti che aveva osato definire "una manifestazione di quattro gatti" un corteo di Alleanza nazionale, si avvitò in un delirio: «I quattro gatti a Milano saranno sufficienti a mangiare i due ratti che sfileranno sul Po, lui e Bossi. Due ratti con topolini al seguito, non voglio dire zoccole, che sono le mogli dei topi». Testuale.
La stessa rivendicazione di orgoglio con cui i finiani ribaltano oggi le battute di questi mesi sulla loro consistenza (una per tutte, lo sfogo di Berlusconi rilanciato dal "Giornale" a fine aprile: «Ho altri problemi che perdere tempo per quattro gatti e la loro futura corrente»), ha dei precedenti. Un esempio? Il libro dato alle stampe da Simonetta Faverio in risposta a quanti avevano ironizzato sulla Tre Giorni leghista del settembre 1996. Titolo: "Quattro gatti sul Po / Piccolo almanacco della nascita di una nazione tra bugie di regime e passione popolare".
Chi più ha giocato sul tema, toccando vette irraggiungibili, è stato però Francesco Cossiga. Ai tempi in cui in polemica con D’Alema, che due anni prima aveva aiutato a diventare presidente del Consiglio, fondò un suo gruppo spostandosi verso destra: «Dicono che siamo quattro gatti e allora ho deciso di fondare un nuovo partito: si chiamerà "i quattro gatti". Il suo slogan sarà "miao"». Era solo l’inizio di uno stralunato tormentone: «Siamo pochi? Con questa ventina di sorci che ci sono in giro, quattro gatti bastano e avanzano». «Il simbolo? Un campo verde con sopra uno scudo inglese sul quale campeggeranno quattro gatti d’oro allineati da destra a sinistra. I felini avranno poi la linguetta e gli occhietti rossi e la coda all’ insù durante la campagna elettorale».
E quando Sebastiano Messina lo prese in giro sul simbolo personale («uno scudo inglese inquadrato, con un gatto mammone nel primo e nel quarto spazio, e il simbolo dei quattro gatti nei restanti due quarti») dicendo che l’aveva scelto «per l’alzabandiera che avrà luogo prima di ogni suo comizio», mandò una lettera a Repubblica per precisare: «Non vi saranno alzabandiera, perché dopo cinquant’anni ne sono stufo. Non ci saranno né spadini, né divise perché non abbiamo la nostalgia né dei balilla, né — come per Mussi — dei giovani "pionieri". Per quanto riguarda il motto, o grido di guerra, esso è già stato ideato e impreziosirà lo stemma dei "Quattro Gatti" e anche quello del Gatto Mammone, scritto con carattere gotico inglese: "Miaoooo!"».
Non bastasse, in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti rivelò di avere fatto fare delle cravatte (una l’indossava) con quattro gatti ricamati a mano. Esaurita la spinta propulsiva del partitino, mandò a tutti gli amici una lettera: «Per ricordo di quest’avventura, invio a ciascuno di voi un crest dei "Quattro Gatti", perché rimanga per voi ricordo del nostro esaurito sodalizio politico ma anche spero pegno della nostra personale amicizia: questo mentre tra le pianure e le colline del fantastico mondo di Gattolandia, in un triste giorno per i risultati ma gioioso per i ricordi! pomeriggio di fine primavera, dalla torre principale di Katzenschloss (il Castello dei Gatti) è ammainato con mano tremula, da alcuni scudieri che mi hanno seguito nell’avventura solo sul piano personale, il glorioso ma per niente vittorioso stendardo del Gatto Mammone!». Il tocco finale, meraviglioso, lo diede durante una visita al mercato romano di Centocelle. Dove da buon micione, per far felice una pescivendola che chiedeva un autografo, prese un pennarello e glielo firmò su una sogliola. Unica differenza: quelli erano compatti in cerca di un padrone, questi dicono di fuggirne. Sono anni che la politica italiana, come ricorda del resto la celebre rubrica di Giampaolo Pansa, è un bestiario. «Vedo il cavallo, non la cavallinità», spiegava Mino Martinazzoli a Ciriaco de Mita. «Se voglio vedere il cavallo devo prima capire cos’è la cavallinità», rispondeva quello. «Il signor Berlusconi è un serpente che avvelena la democrazia», sibilava Alessandra Mussolini prima di far la pace. «Musso da noi vuol dire somaro. Vai a studiarti Gramsci, somaraccio! Ne ho abbastanza del raglio degli stalinisti ultranazionalisti. Hi ho, hi ho...», gridava Umberto Bossi. «Di Pietro è una troia dagli occhi ferrigni», scriveva Giuliano Ferrara.
Per non dire dei continui rimandi a oche, i maiali, pidocchi, anatre, caproni, caimani, tope e vacche. Tantissime vacche. Fino al paragone lanciato da Patrizia D’Addario in un’intervista al Sunday Times, paragone che non si sa se abbia irritato o sotto sotto lusingato il Cavaliere: «Non ho mai dormito tutta la notte. Era instancabile. Un toro».
Nessuno, però, nella politica italiana, ha avuto la fortuna dei gatti. Meglio: dei quattro gatti. Citati mille volte, a proposito o a sproposito. Ed ecco l’aennino Riccardo Pedrizzi irridere al Gay Pride: «Quattro gatti che reclamano "diritti". Ma quali sono questi diritti?». Veltroni a quanti lanciavano allarmi sulla manovra fiscale del comune di Roma: «I soliti quattro gatti». La forzista Anna Bertolini contro Romano Prodi alla vigilia della sua seconda vittoria (striminzita) contro Berlusconi: «Il Professore ha fatto splash. E’ un leader lesso. Ha anestetizzato perfino i quattro gatti di Piazza del Popolo». Umberto Bossi contro gli organizzatori di una grande manifestazione avversa alla secessione: «I padani sono 30 milioni. In piazza, ieri, c’erano 500 mila persone, in gran parte venute da fuori. Era una manifestazione ’’Triculore’’, ma rispetto ai processi storici, mi spiace, 500 mila persone sono quattro gatti». Irene Pivetti, appena espulsa dalla Lega, contro lo stesso Bossi che aveva radunato i suoi in piazza Duomo: «Sono stata lì a volantinare e ho visto che sono quattro gatti, forse meno». Fino all’invettiva del rifondarolo Francesco Caruso: «Ci sono 4 milioni di consumatori di marijuana in Italia: i quattro gatti che Fini minaccia di mobilitare per difendere la sua legge non fanno paura a nessuno».
E come dimenticare i maitres-à-penser che hanno sdottoreggiato sul tema? Erminio "Obelix" Boso si avventurò in una comparazione "feliniana": «Siamo una massa enorme anche se come al solito diranno che eravamo quattro gatti. Ma io a Prodi mando a dire che i gatti appartengono alla stessa famiglia delle tigri, e ci sono le tigri delle nevi, animali che non attaccano mai di spalle ma sempre di fronte». Ignazio La Russa, sferzante col leghista Luigi Peruzzotti che aveva osato definire "una manifestazione di quattro gatti" un corteo di Alleanza nazionale, si avvitò in un delirio: «I quattro gatti a Milano saranno sufficienti a mangiare i due ratti che sfileranno sul Po, lui e Bossi. Due ratti con topolini al seguito, non voglio dire zoccole, che sono le mogli dei topi». Testuale.
La stessa rivendicazione di orgoglio con cui i finiani ribaltano oggi le battute di questi mesi sulla loro consistenza (una per tutte, lo sfogo di Berlusconi rilanciato dal "Giornale" a fine aprile: «Ho altri problemi che perdere tempo per quattro gatti e la loro futura corrente»), ha dei precedenti. Un esempio? Il libro dato alle stampe da Simonetta Faverio in risposta a quanti avevano ironizzato sulla Tre Giorni leghista del settembre 1996. Titolo: "Quattro gatti sul Po / Piccolo almanacco della nascita di una nazione tra bugie di regime e passione popolare".
Chi più ha giocato sul tema, toccando vette irraggiungibili, è stato però Francesco Cossiga. Ai tempi in cui in polemica con D’Alema, che due anni prima aveva aiutato a diventare presidente del Consiglio, fondò un suo gruppo spostandosi verso destra: «Dicono che siamo quattro gatti e allora ho deciso di fondare un nuovo partito: si chiamerà "i quattro gatti". Il suo slogan sarà "miao"». Era solo l’inizio di uno stralunato tormentone: «Siamo pochi? Con questa ventina di sorci che ci sono in giro, quattro gatti bastano e avanzano». «Il simbolo? Un campo verde con sopra uno scudo inglese sul quale campeggeranno quattro gatti d’oro allineati da destra a sinistra. I felini avranno poi la linguetta e gli occhietti rossi e la coda all’ insù durante la campagna elettorale».
E quando Sebastiano Messina lo prese in giro sul simbolo personale («uno scudo inglese inquadrato, con un gatto mammone nel primo e nel quarto spazio, e il simbolo dei quattro gatti nei restanti due quarti») dicendo che l’aveva scelto «per l’alzabandiera che avrà luogo prima di ogni suo comizio», mandò una lettera a Repubblica per precisare: «Non vi saranno alzabandiera, perché dopo cinquant’anni ne sono stufo. Non ci saranno né spadini, né divise perché non abbiamo la nostalgia né dei balilla, né — come per Mussi — dei giovani "pionieri". Per quanto riguarda il motto, o grido di guerra, esso è già stato ideato e impreziosirà lo stemma dei "Quattro Gatti" e anche quello del Gatto Mammone, scritto con carattere gotico inglese: "Miaoooo!"».
Non bastasse, in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti rivelò di avere fatto fare delle cravatte (una l’indossava) con quattro gatti ricamati a mano. Esaurita la spinta propulsiva del partitino, mandò a tutti gli amici una lettera: «Per ricordo di quest’avventura, invio a ciascuno di voi un crest dei "Quattro Gatti", perché rimanga per voi ricordo del nostro esaurito sodalizio politico ma anche spero pegno della nostra personale amicizia: questo mentre tra le pianure e le colline del fantastico mondo di Gattolandia, in un triste giorno per i risultati ma gioioso per i ricordi! pomeriggio di fine primavera, dalla torre principale di Katzenschloss (il Castello dei Gatti) è ammainato con mano tremula, da alcuni scudieri che mi hanno seguito nell’avventura solo sul piano personale, il glorioso ma per niente vittorioso stendardo del Gatto Mammone!». Il tocco finale, meraviglioso, lo diede durante una visita al mercato romano di Centocelle. Dove da buon micione, per far felice una pescivendola che chiedeva un autografo, prese un pennarello e glielo firmò su una sogliola.