GIORGIO FALCO , la Repubblica 5/8/2010, 5 agosto 2010
CONCERTI, FUNERALI E TV ORA TUTTI BATTIAMO LE MANI
Alex Ross, critico musicale del New Yorker, in un suo saggio recente, si chiede quando sia il momento giusto per applaudire durante un concerto di musica classica, se sia etico influenzare lo spettatore tanto da indirizzare il suo applauso in un momento quasi predeterminato. Se vogliamo allargare la questione, andiamo a ritroso nelle nostre vite. Ecco, non era tanto lo spegnimento delle candeline sulla torta il giorno del compleanno, quanto l´applauso dopo il soffio sulle fiammelle che cercavano di resistere flessibili, sporgendosi dalle piccole aste di cera azzurra plastificata. L´applauso era spesso simultaneo allo spegnimento, al piccolo sbuffo di fumo dolciastro, talvolta era addirittura precedente di qualche frazione di secondo. Nato nel periodo del teatro classico greco, perfezionato e regolato durante l´antica Roma, l´applauso ha attraversato secoli, e con la nascita della radio e soprattutto della televisione è diventato parte quotidiana nelle nostre esistenze.
Ammettiamo pure di fare vita ritirata. Non andiamo mai a teatro, a prime cinematografiche, a convegni e conferenze, concerti, eventi sportivi, tanto meno a festival o importanti premi letterari, reading e presentazioni di libri; non partecipiamo a comunioni, cresime, compleanni, matrimoni, funerali (dove ora si sono diffusi) e neppure frequentiamo associazioni, sindacati, assemblee e comizi di partiti e movimenti, luoghi dove sono plausibili discorsi, al termine dei quali, applaudiamo. Eppure viviamo circondati dagli applausi, siamo spettatori di applausi. Basta accendere il televisore. Se alla radio l´applauso è raro - e quando accade ha le sembianze di un fenomeno episodico, come una improvvisa folata di vento - in televisione l´applauso si salda all´immagine, spesso attraverso la risata, e diventa un fenomeno ossessivo, sottofondo intermittente così forte da sembrare ininterrotto, come il pubblico nello studio, di cui spesso possiamo scorgere solo le gambe, le mani che applaudono sfuocate, sullo sfondo senza volto, alle spalle dei conduttori.
Norberto Bobbio, nel suo articolo La democrazia dell´applauso, pubblicato su La Stampa, aveva focalizzato il germe di ciò che sarebbe diventata nei decenni seguenti parte della politica e della società italiana. Aveva criticato l´elezione - per acclamazione - di Bettino Craxi a segretario del Psi, nel 1984. In effetti, attraverso l´applauso e la standing ovation, un sovrano si allontana sempre più da un´elezione democratica, rischia di sconfinare e di confinare se stesso nell´investitura, alimentata dall´adulazione plaudente dei seguaci, spesso opportunisti che regalano al sovrano l´illusione di un potere assoluto.
Proprio nella stagione 1983-1984, Italia 1 iniziava a trasmettere Drive In. Molto è stato scritto su questa trasmissione televisiva. Aggiungerò solo due cose. È nota la velocità degli sketch, spesso contenuti in tre minuti, intervallati da brevi balletti, stacchetti di raccordo, in attesa degli spot veri e propri. Quei centottanta secondi erano ciò che, nei primi call center degli anni Novanta, avrebbe definito il tmc, il tempo medio di conversazione, la durata di una telefonata ritenuta produttiva per l´azienda, indipendentemente dal contenuto e dalla soddisfazione del cliente.
Gli sketch di Drive In sarebbero diventati l´applicazione di un modello produttivo immateriale. Ma quel modello doveva essere supportato dall´applauso e dalla risata, uniti in un unico processo, simile a uno spot pubblicitario. Il comico di turno sparava a raffica i suoi tormentoni, era circondato dal pubblico, ragazze e ragazzi, che come spinti da un´onda impalpabile ridevano e applaudivano. Quel pubblico italiano, giovanile, non applaudiva le battute del comico, sembrava assecondare la risata e l´applauso registrato che giungeva da un nulla fintamente equidistante, credibile perché invisibile, asettico, il nulla amplificato dal fantasma dell´immagine. I ragazzi e le ragazze intorno al comico di Drive In erano espressioni totali del regno dell´accettazione, svelato dalle nostre esistenze.
Si materializzava così il pubblico invisibile di Charles Douglass, il pioniere della variante più significativa dell´applauso. Douglass, morto novantatreenne nel 2003, è l´ingegnere del suono che ha inventato il Laff box, la risata registrata, e l´ha utilizzata negli show e nelle sitcom statunitensi a partire dal 1950. Non era una cosa completamente nuova, basti pensare alla figura ottocentesca dello chatouilleur, il professionista dell´applauso, lo spettatore pagato dai teatri francesi per ridere e applaudire con naturalità ed entusiasmo tali da coinvolgere tutti gli altri spettatori, decretando così il successo, o meglio, la messinscena del successo. La tecnologia di Douglass trasforma l´applauso in suono spettrale, i telespettatori guardano gli applausi generati da altri, e questi altri, non esistono. È un applauso mimetizzato negli interstizi del tappeto sonoro della risata, che come la risacca si infrange sul picco di una battuta, di un´allusione predisposta ogni dieci, venti secondi, in attesa di estorcere la nostra risata, il nostro applauso, o anche solo un accenno, possibile grazie al contagio, all´emulazione di una sfida al nulla, peraltro subito inibita, con lo scemare improvviso e il ritorno al breve stato di quiete.
L´applauso di Douglass è il correttore di acidità, lo stabilizzante, l´emulsionante dell´industria alimentare, è parte integrante del cibo che mangiamo, impone una linea di gradimento standard, indirizza il gusto e suggerisce il momento in cui ridere e applaudire, sebbene l´origine di quel movimento rimanga oscura, e forse piace proprio per questo. Gli americani la definiscono con un acronimo significativo: Lfn, Laughter from nowhere. Da dove giunge la risata, dove si origina l´applauso che applaude se stesso, se non arriva da nessuna parte? Quale invisibile metronomo detta i tempi del nostro assistere, del nostro respirare? Sarebbe bello vedere il primo macchinario e i nastri sui quali Douglass ha inciso i suoni, quando è tornato dalla Seconda guerra mondiale e ha iniziato a registrare l´applauso e la risata del pubblico. Ascoltare i primi suoni che avrebbero incoraggiato i momenti di contagio e di creazione dell´evento, a prescindere dalla qualità. Riuscire a decifrare in quei suoni uniformati le singolarità di ciascuno, strappare quel battimano all´anonimato, attribuire l´età, il sesso, immaginare cosa era successo il pomeriggio prima dello spettacolo, cosa avevano mangiato, bevuto, cosa avevano indossato quel giorno e quanta lacca o brillantina avevano usato per i capelli, e per quante miglia avevano guidato in un tiepido pomeriggio di ottobre, prima di arrivare agli studi.
Attraverso questo piccolo esercizio di attenzione, dovremmo dare loro una nuova possibilità, strapparli alla risata, alla tirannia dell´applauso, farli evadere dalla gabbia del consenso, per vivere attraverso il nostro sguardo. Se li sapessimo ascoltare davvero, capiremmo che ci parlano, e mantengono la speranza che il loro sacrificio - più o meno consapevole - non sia stato vano.