Oscar Giannino, Economy 5/8/2010, 5 agosto 2010
SE FOSSI AMERICANO SAREI IN PIAZZA CON I TEA PARTY
Negli Stati Uniti è partito il grande dibattito sull’opportunità di confermare i tagli alle tasse introdotti da Bush con scadenza dicembre 2010. La discussione si innesta su richieste sempre più corpose di una nuova manovra di finanza pubblica con massiccio debito aggiuntivo per sostenere l’economia. Non è un confronto che riguarda solo gli Usa, ma l’exit strategy mondiale dalla crisi. La scelta americana su fisco e spesa pubblica avrà effetti complessivi. Perché a sua volta si inserisce in un quadro di ripresa mondiale che nel secondo trimestre 2010 ha cambiato passo rispetto al primo, rivelatosi insostenibile. L’indice Pmi degli ordini esteri globali è in frenata nella seconda metà 2010 rispetto alla prima, a luglio la previsione era su 54,4 (oltre quota 50 significa espansione) rispetto al 58,1 del primo semestre. E l’effetto combinato dell’atterraggio morbido della Cina e dell’esaurimento dell’effetto aiuti pubblici negli Usa. Il primo fattore merita un voto positivo. Il secondo no.
La Cina ha visto la crescita del suo Pii nel secondo trimestre 2010 decelerare a +1,9% rispetto al +2,5% del primo, col che il tasso di crescita annuo è sceso dall’11,9% al 10,3%. Il freno segue politiche restrittive attuate per evitare il surriscaldamento del tono generale dell’economia e del credito, nonché per impedire che l’inflazione salga stabilmente sopra la soglia del 3% (era al 2,9% in giugno). L’indice Pmi manifatturiero cinese si tiene in area espansiva ma in giugno scende a 52,1 da 53,9, e nel mese la produzione industriale cresce sull’anno del 13,7% rispetto al precedente 16,5%.
Analogo il tono della crescita dell’export, che sull’anno in giugno sale di uno spettacolare 43,9%, ma in attenuazione sul 48,5% di maggio. Vedremo nei prossimi mesi quale sarà l’effetto che sulla domanda interna (e sull’export dei Paesi Ocse verso la Cina) sarà determinato dalle massicce politiche di aumento salariale in atto in Cina, dal 10 al 20% in termini annuali a seconda delle diverse aree.
Quanto agli Usa, dopo un ultimo trimestre 2009 che vedeva la crescita del Pil annuale quasi più vicina al 6% che al 5%, e dopo un primo trimestre 2010 più vicino al 4% che al 3%, ecco che la prima stima del secondo trimestre è scesa ancora, ed è più vicina al 2 che al 3%. Per chi viene dalla mia scuola di Chicago, è l’effetto fin troppo prevedibile della soprvvalutazione dei moltiplicatori keynesiani della spesa pubblica effettuata dall’amministrazione Obama con il grande deficit pubblico 2009 per sostenere l’economia. Nel breve l’effetto sembra portentoso, ma dopo tre-quattro trimestri ecco che il traino del deficit pubblico si rivela per quel che è, assai meno stabile. Gli attori del mercato iniziano a scontare l’aumento futuro delle tasse in cui inevitabilmente si tradurrà il deficit odierno. Nel marzo-aprile 2009, mentre l’amministrazione Obama si imbarcava nei maxideficit pubbici a sostegno dell’economia, Haraid Uhlig, economista tedesco che insegna a Chicago, aggiornava alla condizione degli Usa di allora il suo noto studio sui più benefici effetti di aumento dell’output potenziale che vengono da tagli fiscali duraturi, rispetto alla spesa pubblica in deficit, mettendo in questione inoltre la riservatezza del modello econometrico Dsge seguito dalla Fed, che improvvisamente asseverava moltiplicatori keynesiani largamente superiori all’unità predicati dai consiglieri economici di Obama. Ma la via «offertista» alla ripresa è rimasta inascoltata in America. Tanto che oggi non solo il solito Paul Krugman, ma anche osservatori come Bob Shiller scrivono che in queste condizioni tanto vale fare come Roosevelt, e assumere un milione di americani a 30 mila dollari l’anno per 30 miliardi di deficit aggiuntivo per piantare alberi ai lati delle strade. La stessa Goldman Sachs invoca una nuova manovra in deficit nei suoi report macro riferiti agli Usa.
Fareed Zakaria e l’intellighenzia liberal che in Europa fa sognare le sinistre occupa le colonne di New York Times e di Washington Post invocando l’abrogazione dei tagli fiscali, sostenendo che ne verrebbero oltre 100 miliardi di dollari di entrate aggiuntive da destinare alla spesa. Dimenticando di ricordare che da questa decisione discenderebbe una decelerazione della crescita americana, da 0,5 a 0,7% di Pil in meno. Vedremo. Se fossi americano sarei in piazza a protestare con chi anima i tea party, ma in novembre si avvicinano le elezioni di midterm e l’amministrazione potrebbe spendere altri dollari dei contribuenti, pur di non far scendere troppo la crescita. In Europa, che ha intrapreso obbligatoriamente ma stentatamente la via del taglio al deficit, la politica «tax and spend» Usa rischia di produrre pessimi effetti politici.