Luciano Fruttero, Massimo Gramellini, La Stampa 5/8/2010, pagina 72, 5 agosto 2010
STORIA D’ITALIA IN 150 DATE
4 novembre 1918
La vittoria mutilata
Mentre l’ufficio stampa delle Forze Armate compone il celebre Bollettino della Vittoria, l’uomo che fra qualche istante lo firmerà è piegato su una carta topografica e sta bofonchiando in napoletano: «Ma ’sto Vittorio Veneto, addo’ cacchio sta?». È Diaz, il generalissimo che ha preso il posto di Cadorna dopo Caporetto e ne rappresenta l’antitesi: estroverso e pacioso, quanto l’altro era rigido e negato per le pubbliche relazioni. Anche Vittorio Veneto è una Caporetto all’incontrario: a sfaldarsi stavolta è l’esercito austriaco. Nell’ultimo anno molte cose sono cambiate. Si sa che gli italiani danno il meglio di sé dopo le disfatte. Il Re al fronte offre uno spettacolo di dignità. I soldati-contadini vengono motivati con la promessa, poi disattesa, di terre da assegnare ai reduci. Il ministro Nitti rilancia l’economia stimolando la produzione. E il generale Badoglio, uscito indenne da Caporetto nonostante lo sfondamento sia avvenuto nella zona presidiata da lui, si riscatta come assistente di Diaz, assumendo la direzione effettiva delle operazioni per infondervi la tattica a noi più congeniale. Non l’ottuso assalto alle cime delle Dolomiti, propugnato per anni da Cadorna, ma un’accorta difesa sul Piave, da cui si esce solo per compiere delle sortite in «contropiede» (essenza dell’anima italiana: lo applicano anche le motosiluranti di Rizzo nella guerra navale). Sul Monte Grappa cogliamo una vittoria decisiva per il morale delle truppe. Ma la fine della guerra si avvicina e il governo, ora presieduto da Orlando, pretende che Badoglio e Diaz vadano all’attacco per conquistare sul campo i territori che i diplomatici reclameranno al tavolo della pace. Il crollo degli austriaci facilita il compito. I numeri della Vittoria sono terribili: 600.000 morti, 500.000 mutilati, 23 miliardi di debiti.
Orlando e Sonnino partono da trionfatori per la conferenza di pace di Versailles, dove il presidente americano Wilson sta mettendo insieme il puzzle della Jugoslavia e prospetta all’Italia di rinunciare alla Dalmazia in cambio di Fiume. I nostri abbandonano sdegnati la sala e tornano a Roma fra gli applausi della folla, sicuri di essere richiamati a Parigi con un telegramma di scuse. Ma poiché il telegramma non arriva, ci tornano di loro iniziativa, con la coda fra le gambe. Adesso si accontenterebbero anche di Fiume, ma Wilson non ci vuol dare più nemmeno quella. E Orlando si dispera. «Ah, se potessi pisciare come lui piange», mormora con invidia il primo ministro francese Clemenceau, sofferente di prostata. D’Annunzio tuona contro «la vittoria mutilata» e l’Italia intera si lascia contagiare dal proprio virus preferito, il vittimismo, che fra non molto farà rima con fascismo.