Luciano Fruttero, Massimo Gramellini, La Stampa 5/8/2010, pagina 72, 5 agosto 2010
STORIA D’ITALIA IN 150 DATE
23 marzo 1919
Antemarcia
«Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani», dirà Mussolini nell’ultima intervista della sua vita. Alla prima adunata milanese in piazza San Sepolcro, a cui durante il Ventennio affermeranno di aver partecipato un po’ tutti, si presentano in trecento. Reduci avviliti dal fronte e piccoli borghesi imbestialiti: contro i socialisti e i loro scioperi, ma anche contro «i pescecani» (oggi si direbbe «i poteri forti») arricchitisi grazie alle commesse di guerra. Il fascismo delle origini è un miscuglio di perdenti, tenuti insieme dal vittimismo e dal rancore. Lo stesso Mussolini, chiamato a spiegare ai seguaci in che cosa consista, dichiara: «Noi siamo degli antipregiudizialisti, degli antidottrinari, dei problemisti». Mah. Comunque si sente sempre un uomo di sinistra: vuole il diritto di voto per le donne e la pensione obbligatoria a 55 anni. Alle elezioni i Fasci di combattimento non raccattano nemmeno un seggio. Per sfregio i socialisti organizzano un finto funerale di Mussolini. Ma è proprio il loro massimalismo condito di violenza a farlo risorgere: il primo scontro fra rossi e neri avviene nell’aprile 1920, davanti all’Arena di Milano.
La svolta arriva dai proprietari terrieri della Pianura Padana che confluiscono nel fascismo per contrastare le leghe socialiste. Gli agrari spostano definitivamente a destra il cuore del movimento e inventano le spedizioni punitive che laureano sul campo i ras di provincia: Balbo, Arpinati, Farinacci. Mussolini non li ama, ma li usa: aizzandoli, per poi presentarsi all’opinione pubblica impaurita come l’unico in grado di domarli. Il gioco gli riesce persino con una vecchia volpe come Giolitti, che punta a imbrigliare i fascisti nel meccanismo parlamentare e a rinvigorire con forze fresche le proprie truppe. Perciò propone un’alleanza elettorale che Mussolini accetta, salvo disconoscerla un minuto dopo la vittoria, precludendo a Giolitti l’ennesima presidenza del Consiglio. Il tribuno di Predappio vuole il potere tutto per sé, e lo vuole attraverso la minaccia della rivoluzione. Ma solo la minaccia, perché da arci-italiano qual è, la rivoluzione pretende di farla d’accordo con i carabinieri, cioè col Re. Invece i suoi ras detestano la politica e, appena lui tenta di costringerveli, provano addirittura a togliergli la guida del partito. Succede quando il futuro Duce tende la mano al governo in carica e agli odiati rossi, contro i quali le sue squadracce vanno picchiandosi nelle piazze. A salvargli il posto è l’assenza di figure carismatiche fra gli oppositori interni. Dino Grandi tenta invano di mandarlo in minoranza. Ci riuscirà il 25 luglio, ma del ’43.