SIMONE DI SEGNI, La Stampa 5/8/2010, pagina 42, 5 agosto 2010
Cragnotti: “Il calcio nelle mani di Baggio? Per carità” - Ha assistito dall’esterno al sipario sull’età dell’oro
Cragnotti: “Il calcio nelle mani di Baggio? Per carità” - Ha assistito dall’esterno al sipario sull’età dell’oro. Ne era uno dei più alti rappresentanti, Sergio Cragnotti, presidente della Lazio dal 1992 al 2003. Oggi anche lui, forse, si troverebbe con le mani legate: club con sempre minore autonomia, occhi costretti sui bilanci, contratti a prestazione. E un calciomercato mai così noioso. Gli sbadigli delle ultime sessioni sono ancora più lunghi, se paragonati ai fuochi d’artificio di un presidente che ad un certo punto fu etichettato come un collezionista di figurine. Da Winter a Gascogne, da Vieri a Salas, da Mancini a Crespo. Con l’ex presidente della Roma Franco Sensi, il «il rivale alleato», Cragnotti lanciò la sfida al Nord e al Palazzo. Gli sforzi furono premiati nel 2000, con il 2° scudetto della storia biancazzurra. Poi il crollo finanziario, nel novembre del 2002, quando i bond del gruppo Cirio vennero dichiarati in «default». Non ebbe scelta: fu costretto a lasciare la Lazio nelle mani dell’allora Banca di Roma e ad uscire di scena con l’accusa di bancarotta fraudolenta. Parametri zero. Contratti su misura. Di colpi neanche a parlarne. Cragnotti, tutto è cambiato rispetto alle sue estati di calciomercato esplosivo. «La crisi globale ha investito anche il calcio. Che però ha le sue responsabilità: il sistema limita la gestione delle società, mentre i presidenti non riescono ad applicare una politica di coesione. Sono loro che dovrebbero dettare legge in autonoma». La sua legge, all’epoca, le costò cara. «La gestione della Lazio fu tutt’altro che scellerata. I movimenti del club non ebbero nulla a che fare con i gravi fatti che coinvolsero il gruppo Cirio. La Lazio era una società all’avanguardia, un astro nascente nella politica sportiva: fui il primo ad applicare la logica delle plusvalenze e degli ammortamenti. Avrò speso più di 200 miliardi di lire per fare grande la squadra, ma riuscii a cedere a cifre esorbitanti giocatori come Vieri, Nesta, Crespo, Veron, Nedved. Eravamo autogestiti, ma nessuno se ne accorse». Cosa occorre al nostro Paese per uscire dalla crisi? «Mancano le idee. L’Italia, storicamente, non ha mai difettato nell’ingegno. Eppure oggi non siamo più appetibili. Spesso si dice che il nostro calcio è riluttante ad investitori stranieri: peccato di presunzione, semmai è il contrario. Il punto è questo: nel Belpaese tutti sanno che non si riesce a gestire il pallone come un’azienda. Bisogna capire che il calcio non può stare nelle mani di ex calciatori come Baggio. Per l’aspetto tecnico andranno anche bene...». Rimettersi in pista? «Le ciambelle con il buco riescono una volta soltanto». Rimorsi? «Rifarei tutto». Qualcosa le mancherà però di quel suo mondo. «Lo spirito di sfida, quello sì, un po’ mi manca. Per me il fine non era la buona gestione, semmai il mezzo: l’unico scopo di un presidente deve essere quello di portare in cima al mondo la propria squadra». Sente di esserci riuscito? «Per due anni la Lazio fu al vertice del ranking Fifa». In Franco Sensi, il suo primo rivale sportivo, trovò il più grande alleato. «Combattemmo Milano con una politica coesa. Dimostrammo che anche nella Capitale si poteva vincere. In un certo senso, sovvertimmo la nostra rivalità. Fu un periodo, forse, irripetibile». La famiglia Sensi ha deciso di mandare in liquidazione la società «Stadio Olimpico», che lei fondò con l’ex presidente della Roma. «Evidentemente era venuto a mancare l’oggetto. Quella società fu costituita per gestire un nuovo impianto sportivo. Nella fattispecie stavamo per procedere all’acquisto dell’Olimpico: avevamo ottenuto il consenso del sindaco Veltroni, volevamo ristrutturarlo sul modello di quelli di ultima generazione. Interferenze politiche ci impedirono di realizzare il nostro progetto».