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 2010  agosto 05 Giovedì calendario

LA STRAGE DI BISCARI

Settantuno soldati italiani e due tedeschi furono brutalmente trucidati dai militari della 45esima divisione di Fanteria americana subito dopo lo sbarco di Gela, il 14 luglio 1943. Una battaglia del tutto dimenticata. A distanza di 67 anni ancora non si conoscono tutti i nomi di quei commilitoni e neanche il luogo in cui furono sepolti. Non un monumento ai caduti, nemmeno un cippo veglia sul luogo della strage, compiuta nei pressi dell’aeroporto di Santo Pietro di Caltagirone (ribattezzato aeroporto di Biscari dagli americani), a ricordare il martirio di quei ragazzi ai quali toccò in sorte di cadere vittime di terribili quanto gratuiti crimini di guerra.
A raccontare l’altra faccia, quella impresentabile e cruenta, dei paladini yankee della liberazione è l’unico superstite ancora in vita della strage di Biscari. L’aviere scelto Giuseppe Giannola, siciliano di Palermo, oggi 93enne. Aveva 26 anni all’epoca dei fatti. «Aiuto autista della compagnia comandata dal capitano Talante posto a presidio dell’aeroporto di Santo Pietro, s’improvvisò fuciliere difendendo con il suo moschetto ’91 il perimetro della pista di atterraggio», ricorda Andrea Augello, senatore del PdL, nel libro che ha dedicato alla vicenda, Uccidi gli italiani (Mursia), con la postfazione di Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato.
La controffensiva
Il racconto di Giannola a Libero parte dal terzo giorno precedente la carneficina. «L’11 luglio del 1943 mi ordinarono di perlustrare la pista di atterraggio insieme a un mio commilitone. E poche ore dopo catturammo due paracadutisti americani consegnandoli al comando». Ma due giorni dopo si scatenò la controffensiva degli Alleati. «All’alba del 14 luglio, gli americani circondarono il nostro rifugio lanciando bombe a mano che esplosero davanti alle uscite. Ci urlarono di venire fuori con le braccia alzate e noi obbedimmo. Ci perquisirono e ci tolsero tutto lasciandoci in mutande. E ci portarono via le scarpe per impedirci di correre. Dopo poco, una trentina di soldati italiani furono uniti al nostro gruppo».
Erano in tutto una cinquantina di militari. «Ci fecero disporre in due file da venticinque. Fu tremendo quando ci schierarono», ricorda l’aviere, «io ero al centro della prima fila. Accanto avevo due commilitoni palermitani che conoscevo da bambino. A quel punto, un sergente alto, robusto e tatuato imbracciò il mitragliatore e iniziò a sparare. Io ricevetti la prima raffica di mitra al braccio destro e mi buttai a terra. I corpi degli altri commilitoni mi caddero addosso. Non vedevo più nulla. Sentivo solo il colpo di grazia a quelli in agonia. Stavo fermo col braccio infuocato, la faccia e il corpo coperti dal sangue dei miei compagni. Rimasi immobile un paio d’ore finché il silenzio non divenne totale».
Ma non era finita. «Lentamente, quasi paralizzato dalla paura, spostati i corpi, mi alzai. Feci appena in tempo a guardarmi intorno e mi raggiunse un’altra fucilata, che mi sfiorò la testa dove scavò un solco bruciandomi i capelli. Sarebbe bastato un millimetro più giù per ammazzarmi. Ho cercato di non respirare, temendo che ci fosse qualche soldato americano appostato per fare secco chiunque fosse rimasto vivo».
Tre volte miracolato
«Non so quanto tempo sia passato», sospira nel rievocare lo stato d’animo di un uomo doppiamente miracolato. «Il braccio sanguinante e la ferita alla testa mi bruciavano. Il dolore superò la paura. Così riuscii ad allontanarmi dalla scena della strage vagando alla ricerca di aiuto».
Il peggio, però, doveva ancora arrivare. «Mi imbattei in diversi militari americani, uno dei quali esibiva al braccio la fascia della Croce Rossa. Mi diedero da bere e mi bendarono le ferite. Poi, a gesti mi fecero capire che di lì sarebbe passata un’ambulanza per trasportarmi in ospedale. Invece, arrivò una jeep con due soldati americani. Il primo scese disarmato. Il secondo, armato di fucile, mi sparò il terzo colpo della giornata, questa volta a distanza ravvicinata, nel collo». Eppure, incredibilmente, Giannola sopravvisse anche alla terza fucilata. Fu raccolto da un’ambulanza Usa e trasportato nell’ospedale da campo di Scoglitti, in provincia di Ragusa. Da lì iniziò la sua lunga odissea per gli ospedali, finendo addirittura in Tunisia.
Un amaro destino lo attendeva in patria: «La procura militare di Palermo mi dichiarò disertore. Rientrato dalla prigionia denunciai l’accaduto alle autorità militari il 31 dicembre ’45 e poi, il 21 agosto ’46, al comando dell’aeronautica di Palermo. Nessuno mi volle credere o forse nessuno sapeva che farsene della mia verità. Nonostante tutto sono ancora vivo e continuo a raccontare la mia storia». Perché prima di morire, l’aviere scelto Giannola vuole che l’eccidio sia riportato alla luce.
Visto che, oltre al massacro di Biscari, gli americani compirono anche diversi eccidi di civili, quattro anni fa, nei pressi dell’aeroporto, il Comune di Caltagirone ha posto una lapide in memoria di tutti i caduti, civili e militari. Giannola chiede, invece, che un cippo venga dedicato espressamente ai suoi oltre settanta commilitoni, di cui non si conoscono neppure tutti i nomi. Di qui, il suo secondo appello al governo e alle istituzioni, affinché si ricostruisca la lista completa dei militari trucidati all’aeroporto, molti dei quali risultano dispersi o disertori.
Sergente condannato
L’aviere chiede inoltre che venga individuato il posto in cui furono sepolti i suoi compagni per riesumare ciò che resta di loro. Ma le autorità italiane non ne sanno nulla. Gli unici che possono fornire una risposta sono gli americani che trascrivevano tutto e nei loro archivi probabilmente esiste una documentazione del luogo della sepoltura. Giannola è convinto che il cimitero si trovi a circa sei km dall’aeroporto di Santo Pietro, in località Piano Stella. Suo figlio Riccardo, invece, ritiene che il luogo dell’eccidio e della sepoltura si trovi a meno di un km dall’aeroporto.
Per la strage di Biscari la corte marziale dell’esercito degli Usa processò il sergente Horace West, condannato all’ergastolo, e il capitano John Compton, assolto perché avrebbe eseguito un ordine del generale Patton al quale non poteva sottrarsi. Ma giustizia non sarà mai fatta, per Giannola, «finché non verrà restituito l’onore ai miei commilitoni». Non ha dubbi sul perché lui non abbia fatto la loro stessa fine: « Mi ha salvato la mia fede».