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 2010  agosto 05 Giovedì calendario

E COSÌ L’ISOLA SI STRINSE ALLA NAZIONE

La Sardegna ha ricevuto dall’unità in termini di modernizzazione più di quanto abbia perso in autonomia». Non è tipo da difesa d’ufficio, Aldo Accardo. Il presidente della Fonda­zione Siotto, che coordina il comi­tato regionale dei 150 anni, am­mette che quella della Sardegna u­nitaria è una storia di luci e ombre. Dopo la fusione del 1847 con il Re­gno di Carlo Alberto – fino ad allo­ra l’isola aveva conservato le antiche istituzioni feudali – «abbiamo co­nosciuto il parlamentarismo e il mercato internazionale». Aggiunge la storica Maria Luisa Di Felice: «Far parte della lega doganale aiutava ad esportare pelli e grano, ma ci espo­se alla colonizzazione dei genovesi, che si appropriarono delle nostre miniere; e sparirono i boschi seco­lari, trasformati in traversine per le strade ferrate. Non le nostre».
I trasporti sono ancora oggi la za­vorra dello sviluppo sardo. Se si eccettua la ’Carlo Felice’, che collega Cagliari a Sassari, il gap non è diverso da quello rilevato da Carlo Cattaneo nel 1840: 400 chilometri di carrozzabili contro i 25mila del­la Lombardia. Il fondatore del Politecnico proponeva di investire su­bito 24 milioni dell’epoca; 170 anni dopo, Berlusconi ha vinto le regio­nali promettendo una lista miliardaria di infrastrutture. Dovevano nascere per il G8 della Maddalena, si sa com’è andata a finire.
Ancora Accardo: «Alla fine, l’ingres­so nel mercato internazionale com­portò più danni che benefici. La guerra doganale con la Francia pro­dusse una flessione dell’export di bestiame del 90 per cento. Sul pia­no istituzionale, esplose il centrali­smo piemontese, ’sanato’ solo dal­la Repubblica con lo Statuto di au­tonomia ». Anche la fine del feuda­lesimo ebbe un sapore agrodolce. «La legge delle chiudende, nel 1820, permise solo a chi aveva i soldi di cintare i possedimenti. Fu una ri­voluzione non indolore». Né fu l’ul­tima. Nel 1972 la commissione Me­dici stabilì che per sconfiggere il banditismo si dovessero trasforma­re i pastori sardi in operai: iniziava così la sfortunata (e dispendiosa) e­popea dell’industria chimica sarda. Il comitato promotore produrrà pubblicazioni e conferenze per scandagliare queste vicende. Un grande convegno storico riunirà gli storici delle Università di Cagliari e Sassari ma c’è chi, come il professor Antonello Mattone, è critico – «Fi­nora si è fatto poco o nulla» – e pa­venta il rischio che resti un appuntamento per pochi. Come quelle fa­miglie che ’c’erano’, a Novara, a Custoza, a Pastrengo… «La nobiltà sarda diede un contributo impor­tante alle guerre d’indipendenza. E­fisio Cugia di Sant’Orsola fu mini­stro e generale, Litterio cadde in bat­taglia » racconta Gian Felice Pilo, ti­tolare di uno studio legale a Sassa­ri, imparentato con mezza nobiltà
sarda e delegato dell’Associazione araldica. «Anche i rapporti con la Chiesa – attesta – erano stretti: quando firmarono il Concordato nel ’29, il primo gentiluomo di cor­te era un Arborio Mella di Sant’Elia e il vescovo che assisteva alla firma suo fratello».
Il ruolo strategico dell’alleanza tro­no e altare in Sardegna è stato chia­rito da uno studio di Giuseppe Zi­chi – I cattolici sardi e il Risorgi­mento – promosso dal Progetto cul­turale della Conferenza episcopale sarda. Zichi parte dalla lettera con cui »il viceré Carlo Felice nel 1816 spiegava ai vescovi dell’isola come ’la religione e il governo si doves­sero scambievole aiuto e favore’. E infatti la Chiesa svolse un ruolo di primo piano». Nella Sardegna preu­nitaria il clero vigilava sulle scuole, promuoveva l’agricoltura e sprona­va i giovani – i sardi non avevano il vincolo della coscrizione obbliga­toria – ad arruolarsi, ma già con la politica di laicizzazione dello Stato sabaudo – cioè prima di Porta Pia – cambiò tutto e qualche vescovo, co­me quello di Cagliari, fu costretto all’esilio.
Divisa tra Dio e la Patria, la nobiltà scelse la seconda. I genitori del co­lonnello Gavino Delogu lo voleva­no canonico ma lui a 14 anni si ar­ruolò volontario, guadagnandosi encomi e medaglie a Solferino, San Martino e Magenta. «Fu incaricato – ricorda un suo discendente, Ales­sandro Ponzeletti – di trattare la re­sa di Perugia con il legato pontificio, monsignor Pecci, il futuro papa Leone XIII, il quale rifiutò». Cento­cinquant’anni dopo, spirano brez­ze revisioniste: «Molti pensano – di­ce Pilo – che avesse ragione Pio IX e che si dovesse dare all’Italia una struttura federale fin dall’inizio».





LA PRONITPOTE - Parla Annita, la pronipote: «Nell’Eroe, il mio bisnonno, si identifica l’Italia intera»

Annita si scrive con due enne, come «il diminutivo di Anna, il nome che Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, cioè la mia bisnonna, usava in Italia» spiega Annita Garibaldi Jallet. La pronipote di Giuseppe Garibaldi è una docente universitaria in pensione e trascorre le vacanze alla Maddalena dividendosi tra i nipotini e le memorie dell’antenato. Porta nel cuore e nel nome la storia meno nota dei Garibaldi: Ezio e Sante, figli di Ricciotti e nipoti dell’eroe dei due mondi, uniti da un patriottismo inciso nell’albero genealogico e divisi dalla politica. Il primo, dirigente del Partito nazionale fascista, seguì la parabola del regime; oggi il figlio, Giuseppe, presiede l’Istituto storico intitolato all’eroe del Risorgimento. Il secondo, repubblicano, padre di Annita, fu costretto a espatriare in Francia ma l’Ovra riuscì a rintracciarlo e finì a Dachau.Tornò in Francia nel ’46 per morirvi. «Storie vecchie» taglia corto la figlia, che definisce il generale nizzardo «un massone ma non un ateo. Come tanti repubblicani considerava la Chiesa un avversario politico, non religioso». Sarà, ma fede e politica hanno continuato a intrecciarsi nella vita dei Garibaldi: «Siamo una famiglia di cultura laica e repubblicana, mio padre si sposò civilmente ma quando nacqui io mia madre ’impose’ il battesimo e lui accettò, a patto che avvenisse in casa e non in chiesa. E così fu». A 150 anni dall’unità, sottolinea, «la figura di Garibaldi come nemico della Chiesa non ha senso. Questo personaggio, piuttosto, si identifica ovunque con l’Italia, come san Francesco d’Assisi. In Francia gode di una fama che prescinde dalla stessa Resistenza, per quanto i garibaldini abbiano scritto pagine eroiche anche oltre confine.Tra quei patrioti c’era anche mio padre». Se oggi i nipotini di Annita portano il doppio cognome, Garibaldi Jallet, non lo si deve infatti all’eroe di Caprera: «Il governo francese – conferma la signora – ci ha concesso questo privilegio per i meriti di guerra del resistente Sante Garibaldi» (P.V.).