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 2010  agosto 05 Giovedì calendario

IN POLITICA NON C’È PARTITA (A DUE)

Il modo in cui è stata respinta la mozione di sfiducia al sottosegretario Caliendo rivela come l’Italia si appresti a vivere uno scenario che ha il sapore del deja vu, solo a parti invertite: sembra il gioco dell’oca. Se nel 2006 era Prodi a dover contrattare giorno per giorno la sua maggioranza, nei prossimi mesi assisteremo a un’analoga azione da parte di Berlusconi, che, a parole, minaccerà le elezioni anticipate un giorno sì e l’altro pure ma, nei fatti, proverà a stare in piedi aprendo il calciomercato, come già ai tempi del governo Prodi, intercettazioni docet.
È la "sindrome Melchiorre" quella che affligge lo sconquassato bipolarismo italiano. Di che si tratta? Daniela Melchiorre, classe 1970, ex Margherita, ex sottosegretaria della Giustizia nel governo Prodi nella quota liberaldemocratica di Lamberto Dini, nel 2008 si è candidata con Berlusconi insieme con il suo mentore. Ma contrariamente a Dini, dopo un mese ha lasciato il Pdl per passare al gruppo misto e ora sta contrattando il suo ritorno nella maggioranza in seguito allo strappo dei finiani, con i suoi 4 deputati e un senatore: buttali via, di questi tempi.In cambio,s’immagina,di un nuovo posto come sottosegretario.
Questa storia personale, benché irrilevante sul piano del consenso politico (la lista Melchiorre alle elezioni europee del 2009 ha preso lo 0,23%) ha il merito d’introdursi come una sonda dentro la malattia congenita del sistema politico italiano. Se il bipolarismo non riesce a garantire la governabilità promessa, la creazione in vitro di terze forze qualora perdurasse l’attuale legge elettorale - non rappresenta una medicina consigliabile, anzi rischia di essere peggiore del male che pretenderebbe di curare.
L’impressione di fondo è che la scelta bipolare abbia difficoltà a penetrare nella cultura profonda, non tanto dell’elettorato italiano, desideroso di scelte semplificate e chiare, ma delle classi dirigenti. I motivi sono diversi.
Anzitutto, la crisi delle culture politiche intorno a cui sono prosperati i partiti di massa ha portato a una personalizzazione del messaggio che favorisce lo spirito di fazione e il rafforzarsi delle spinte corporative: berlusconiani, finiani, diniani, casiniani, rutelliani, veltroniani, dalemiani, dipietristi, vendoliani, e chi più ne ha ne metta. Divisi si conta di più, ciascuno ha una piccola, grande corte e questo produce un’oggettiva frammentazione del quadro con conseguente dispersione di preziose energie.
In secondo luogo, vi è un problema determinato dalla mancanza in Italia di uno spirito di coesione, di un tessuto comune fondato su 3- 4 punti fondamentali in grado di unire l’intera comunità nazionale che poi potrebbe dividersi in modo semplice e limpido come di fatto non avviene. Ad esempio, non è un caso che Fini abbia rotto con il suo storico alleato soltanto venti giorni dopo la condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa di Dell’Utri, il polmone destro di Berlusconi; e qualche ora dopo dal rifiuto dell’ex sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino di Casal di Principe - che, a quanto pare, ha avuto un ruolo nello sgombrare Napoli dall’immondizia, ma sul quale pende un ordine di arresto per concorso esterno in associazione camorristica - di dimettersi dalla carica di coordinatore del Pdl in Campania, ossia non dalla poltrona di governo ricevuta in cambio come premio, ma dalla base che fonda il suo potere. Il tema della legalità è purtroppo un argomento drammaticamente serio perché si è superato il livello di guardia.
Infine, vi è una questione legata a questa legge elettorale che dovrebbe fissare le regole del gioco e invece ha creato le fatali condizioni di un suo continuo logoramento. Essa ha favorito un presidenzialismo di fatto attraverso una doppia forzatura: la definizione di un premio di maggioranza abnorme e la possibilità d’indicare il nome del capo della coalizione sulla scheda. Così il presidente del Consiglio può ritenere di essere di fatto eletto direttamente dal popolo, quando invece, in base alla Costituzione, è nominato dal presidente della Repubblica. Il premio di maggioranza è un istituto anomalo che ha avuto il solo precedente nella legge Acerbo ai tempi di Mussolini per assicurare al Partito nazionale fascista una solida base parlamentare con un premio che scattava al 25%; basti pensare che la tanto vituperata " legge truffa" di De Gasperi del 1953 lo prevedeva per chi avesse superato il 50% dei votanti.
Nel "Porcellum", invece, per papparsi tutta la torta è sufficiente prendere un voto in più dell’avversario. Pertanto abbiamo un terzo del corpo elettorale a cui viene regalato indebitamente un bonus di maggioranza in nome di un malcelato senso di governabilità che i fatti, non le teorie, stanno mostrando - a destra come a sinistra quantomeno difficile da sostenere.
Il "Porcellum" è un ibrido perché ha alimentato una cultura presidenzialista, lasciando inalterate le regole del parlamentarismo ed è quindi privo dei necessari contrappesi. Ad esempio, manca il contraltare dell’elezione autonoma e separata dell’assemblea rappresentativa come avviene negli Stati Uniti e in Francia, un’elezione funzionale a controbilanciare il suffragio diretto del presidente. Qui da noi, invece, il parlamento è cooptato come corte del primo ministro e, non a caso, ha toccato vertici di svilimento delle sue prerogative come non mai nella storia repubblicana. In questo modo abbiamo subito una torsione in senso presidenziale del parlamentarismo riuscendo nell’impresa di assommare i vizi potenziali di entrambi i sistemi: il plebiscitarismo da un lato e la dequalificazione del principio di rappresentanza dall’altro.
Per alcuni s’intravede la luce in fondo al tunnel dell’infinita transizione italiana, ma l’errore più grave sarebbe quello di dare per scontato che l’uscita debba essere necessariamente a sinistra o al centro e non a destra. Un malinteso ancora più irresponsabile in assenza di una leadership credibile e aggregante, nella mancanza di un’unità delle forze che oggi si oppongono a Berlusconi, nella carenza di una seria e realistica politica delle alleanze.