Paolo Armaroli, Libero 1/8/2010, 1 agosto 2010
UN’IDEA PER FAR FUORI GIANFRANCO AL VOTO SOLO PER MONTECITORIO
Una volta tanto, su una cosa i giuristi si trovano perfettamente d’accordo. Sostengono all’unisono che in uno Stato degno di questo nome là dove c’è potere, c’è responsabilità. Facciamo il caso della nostra beneamata Repubblica. Ciò vale per il potere esecutivo inteso in senso lato, per il potere legislativo e per l’ordine giudiziario. Lo Statuto albertino definiva sacra e inviolabile la persona del re. La nostra Costituzione, a sua volta, stabilisce che l’inquilino del Quirinale non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni in quanto è coperto dalla controfirma ministeriale.
Tuttavia la nostra Legge fondamentale prevede che il presidente della Repubblica è invece responsabile per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. E in tali casi è posto in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune davanti alla Corte costituzionale in composizione per l’occasione allargata. E se la Corte pronuncia una sentenza di condanna, il presidente è tenuto a farsi da parte.
SFIDUCIA PARZIALE
Il governo deve avere la fiducia delle due Camere. E se una di esse gliela revoca, il ministero deve fare fagotto. Da quando è stata ritenuta ammissibile una mozione di sfiducia al singolo ministro, anche quest’ultimo si vedrà costretto alle dimissioni nel caso che venga approvata da uno dei due rami del Parlamento. E ora perfino un sottosegretario può sloggiare. Basta che sia approvata una semplice mozione che inviti il governo a farsi parte diligente in tal senso. Una bella furbata, che nella patria del diritto e del rovescio ha piena cittadinanza.
Anche le Camere possono togliere il disturbo anzitempo, prima del quinquennio stabilito dalla Costituzione. Così è stato un’infinità di volte, a partire dal 1972, grazie agli scioglimenti anticipati di entrambi i rami del Parlamento. Anche i componenti dell’ordine giudiziario possono pagare pegno. Infatti nei casi più gravi il Csm, anche se ci va con i piedi di piombo, può disporne l’esonero dalla magistratura. Solo i presidenti delle Camere sono delle mosche bianche. Una volta eletti, non rispondono più a nessuno. Un’anomalia bella e buona, non c’è che dire.
In effetti, né la Costituzione né i regolamenti parlamentari prevedono una mozione di sfiducia nei loro confronti. Anche se si potrebbe obiettare che neppure la escludono. Facciamo il caso di Gianfranco Fini, che non ci pensa nemmeno a rassegnare le dimissioni dalla presidenza della Camera. E, come quel personaggio della “Giara” di Pirandello, in sostanza dice: qui ci faccio i vermi. È stato eletto il 30 aprile 2008, al quarto scrutinio. Nei tre precedenti scrutini, dove è richiesto un quorum particolarmente qualificato, non ce l’ha fatta perché l’opposizione di centrosinistra si è ben guardata dall’aggiungere i propri voti a quelli della maggioranza. Perciò si è dovuto accontentare dei 335 voti dei deputati del PdL e della Lega. 29 in più del quorum prescritto.
LA REVOCA
In teoria, la stessa maggioranza che lo ha eletto potrebbe revocarlo. Ma sconsiglieremmo una mossa del genere. Perché Fini potrebbe sollevare un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato nei confronti dell’assemblea di Montecitorio davanti alla Corte costituzionale. Un conflitto improponibile, è vero, in quanto entrambi i soggetti appartengono a uno stesso potere: quello legislativo. Ma la Corte, contro ogni previsione, potrebbe giudicare ammissibile il conflitto. E poi nel merito dare ragione a Fini. Forse, non si sa mai, perché gli sta simpatico.
A una scorciatoia imprevedibile è preferibile la via maestra. Alla ripresa autunnale dei lavori parlamentari, un giorno sì e l’altro pure la maggioranza di governo potrebbe contestare l’operato del presidente della Camera, fino a rendere ingovernabile l’assemblea di Montecitorio. Il capo dello Stato non potrebbe che prenderne atto e provvedere allo scioglimento della sola Camera attorno alla metà di gennaio. Così le elezioni della nuova Camera interverrebbero a metà marzo, dal momento che dalla data dello scioglimento a quella delle elezioni deve intercorrere un lasso di tempo compreso tra i 45 e i 70 giorni. La nuova Camera eleggerebbe il nuovo presidente e Fini uscirebbe di scena.
Nelle more delle elezioni, resterebbero in carica il Senato, la Camera con poteri limitati all’ordinaria amministrazione, e il governo. Forte della maggioranza parlamentare, in ipotesi mai venuta meno, gestirebbe le elezioni e legifererebbe con lo strumento dei decreti legge. Fino a quando, sulla scorta del risultato elettorale, il capo dello Stato nominerà il nuovo governo. E se Berlusconi tornerà a vincere, sarà sempre lui – si capisce – a capo del nuovo ministero. Senza soluzioni di continuità.