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 2010  agosto 04 Mercoledì calendario

SET DI TELEFONINI E SPIE, LE TRACCE CHE PORTANO AL «PARTITO DI DIO»

Due set di cellulari. Il primo composto da 8 telefoni. Il secondo da 20. Sono i «cerchi dell’Inferno». Li hanno definiti così perché nascondono — forse — i segreti di un complotto e potrebbero innescare un nuovo conflitto al confine tra Libano e Israele. Una trama che riporta al 14 febbraio 2005, Giorno di San Valentino e data di una strage: quella costata la vita all’ex premier libanese Rafiq Hariri. Chi ha usato i cellulari potrebbe aver avuto un ruolo nell’attacco. Un agguato sul quale indaga l’Onu e che chiama in causa l’Hezbollah, il movimento sciita libanese appoggiato da Iran e Siria. Il verdetto — contrastato — della commissione d’inchiesta internazionale è atteso per le prossime settimane ma sono bastate le molte indiscrezioni a rendere tesa l’aria di Beirut e dintorni. Perché l’Hezbollah, con l’appoggio dei suoi padrini, non ci sta e minaccia in modo pesante di incendiare la regione. Abituato all’arte dell’intrigo, il movimento sciita manovra per non apparire come il provocatore. E così inscena «manifestazioni di protesta» contro i caschi blu o spinge in avanti quei reparti dell’esercito libanese composti in maggioranza da sciiti. È il caso della Nona Divisione coinvolta negli scontri di queste ore.
A collegare l’Hezbollah al delitto Hariri è stato il minuzioso lavoro svolto da un coraggioso capitano dell’esercito, Wissam Eid. Grazie alla tecnologia fornita da Francia e Stati Uniti, l’ufficiale ha individuato il primo cerchio. A crearlo Abd Al Majid Ghamlush, un operativo dell’Hezbollah responsabile dell’acquisto di 8 cellulari nell’area di Tripoli. Poi le indagini sono arrivate al secondo cerchio, ben più importante perché coordinato da due figure chiave. Hajj Salim, 45 anni, e Badr El Din, entrambi ufficiali del servizio operazioni dell’Hezbollah. In particolare il secondo è un professionista del terrore. Responsabile di attacchi dinamitardi in Kuwait negli anni ’80, è diventato collaboratore e parente di Imad Mughnyeh, la mente delle azioni clandestine del movimento sciita poi ucciso in un attentato a Damasco. Visto il peso e il prestigio delle figure coinvolte, è dura per l’Hezbollah sostenere che si tratta di cani sciolti. Se davvero la commissione Onu dovesse incriminare il movimento libanese sarebbe un colpo severo. E, quindi, è chiaro che il partito guidato dallo scaltro Hassan Nasrallah stia facendo il possibile per uscire dalla trappola.
Ieri sera il segretario del partito ha pronunciato un atteso discorso durante il quale ha addossato la responsabilità dell’attentato Hariri a Israele — «fornirò le prove il 9 agosto» — ed ha minacciato: «La prossima volta reagiremo». Anche se in questa occasione i militanti hanno ricevuto l’ordine di non intervenire. Intanto i collaboratori di Nasrallah si preoccupano di coprire le prove. Così Ghamlush è scomparso da tempo: forse è fuggito all’estero oppure è morto. El Din resta ben protetto. Il capitano Wissam Eid non c’è più. Lo hanno assassinato insieme a 4 collaboratori il 25 gennaio 2008. Per farlo fuori hanno usato lo stesso metodo impiegato con Hariri: un’autobomba. Quindi è iniziata la caccia alle spie, diretta dal servizio operazioni e da un alto ufficiale iraniano distaccato in Libano, Hussein Mahadavi. Con una serie di retate sono stati smascherati 50 informatori al servizio del Mossad. E molti di loro lavoravano nelle compagnie telefoniche. Per l’Hezbollah è la prova delle trame israeliane.
Preparandosi al peggio, i miliziani hanno riorganizzato i nascondigli per i circa 40 mila razzi — compresi i nuovi M600, raggio 250 chilometri — pronti a essere impiegati contro Israele. Rispetto al conflitto del 2006, i punti di lancio sono a nord del Litani e i rifornimenti possono arrivare in modo rapido da un deposito siriano. Gli israeliani, da parte loro, hanno rivisto piani e tattiche.
Quello di ieri sarà stato un «incidente» ma i protagonisti sono consapevoli che le guerre esplodono così.