Marcello Sorgi, La Stampa 4/8/2010, pagina 34, 4 agosto 2010
Elvira Sellerio - Elvira Sellerio aveva cominciato a morire qualche tempo fa, saranno due o tre anni che al telefono lasciava rispondere la segreteria, e poi quando capiva che era qualcuno che non avrebbe lasciato un messaggio, solo all’ultimo afferrava la cornetta, come se dovesse dimostrare ancora che era viva
Elvira Sellerio - Elvira Sellerio aveva cominciato a morire qualche tempo fa, saranno due o tre anni che al telefono lasciava rispondere la segreteria, e poi quando capiva che era qualcuno che non avrebbe lasciato un messaggio, solo all’ultimo afferrava la cornetta, come se dovesse dimostrare ancora che era viva. Viva, e vivacissima, lo era sicuramente, anche quando si metteva a spiegare che si sentiva troppo malridotta e non in grado di ricevere nessuno. Un minuto dopo, però, attaccava con le sue mille domande, e due minuti dopo conversava felice, saltando da un argomento all’altro e da una battuta all’altra: così quelli di noi che di tanto in tanto cercavano di capire come stesse veramente, non si pentiranno mai di aver creduto, conoscendola, che fosse la più grande malata immaginaria della terra. Viene da ripensare, adesso che il suo male se l’è portata veramente - tradendo la speranza di quelli che le volevano bene e dei suoi autori, che avevano scommesso affettuosamente sulla sua cattiva salute di ferro -, allo strano rapporto che i grandi siciliani hanno con la morte. Non la temono, anzi sembrano sfidarla continuamente. E da un certo punto in poi la frequentano e la considerano amica. Forse Elvira era entrata in questa fase, le sue due vite meravigliose, di editrice di libri e di televisione, le appartenevano pienamente, come tutte le battaglie che aveva combattuto, vincendole e perdendole con lo stesso entusiasmo. Ma il suo respiro intermittente, e la vecchiaia rinviata all’infinito con abili sotterfugi, avevano fatto sì che si abituasse all’idea di andarsene da un giorno all’altro, com’è accaduto. Per questo, negli ultimi tempi, quando le toccava entrare e uscire dalle cliniche e vedere i medici scuotere le teste e riempirla di raccomandazioni che considerava inutili, erano diventati sorprendenti certi suoi repentini passaggi dall’abulia e dal pallore che facevano temere il peggio a sprazzi di imprevedibile vitalità. Lo specialista aveva appena girato la porta, facendole giurare che non avrebbe più fumato, osservando una rigida dieta di farmaci e digiuno, e lei era lì con il guizzo negli occhi, pronta a ordinare una spesa di salumi pregiati, da comperare in una salumeria di lusso nota solo a lei e ad altri eletti. Era andata così anche l’ultima volta che era venuta a Roma, costretta per settimane a una faticosissima serie di controlli in un centro di alta specializzazione, interrotti per fortuna dalle visite, a cui teneva molto, di tutti gli amici preoccupati per lei. E andava così non appena si riprendeva e riapriva la casa-museo di via Siracusa, a Palermo, proprio di fronte alla redazione della sua Editrice. Lì, sullo sfondo di preziose pitture su vetro e antiche marionette dell’Opera dei Pupi, nella penombra tipica palermitana del salotto, appena ravvivato dai colori delle tappezzerie, Elvira cominciava lentamente ad agitare il Martini-cocktail, la sigaretta poggiata sul portacenere, l’aria dolente con cui aveva aperto la porta che presto trasfigurava nel sorriso felice dello stare in compagnia. In queste lunghe chiacchierate, che potevano durare giornate intere, si capiva che a dispetto di una vita trascorsa tra scrittori e libri e solo in piccola parte tra telecamere, studi televisivi e autori di talk-show, considerava queste due componenti quasi pari nello sviluppo della sua vita. Era informatissima, non solo sui segreti grandi e piccoli dell’editoria italiana e sulle debolezze degli autori più amati, che a volte le provocavano grandi amarezze. Ma anche sul teatrino e sull’infinita serie di pettegolezzi del nostro casereccio show-biz, di cui parlava spesso con Giovanni Minoli, il suo amico più stimato in quel mondo, snocciolando nomi e cognomi con grande divertimento e con introspezione psicologica degna di miglior causa. Per molto tempo l’andamento della casa editrice fondata da Elvira quarant’anni fa aveva seguito il suo bio-ritmo. Nell’elaborazione della linea editoriale, nella scelta dei titoli e degli scrittori, certo, avevano gran peso i quattro uomini fondamentali della Sellerio: Leonardo Sciascia con la sua indiscussa autorità, Nino Buttitta, antropologo di fama internazionale figlio del poeta Ignazio, Vincenzo Tusa, archeologo, e il suo ex-marito ed eterno compagno di vita Enzo, grande fotografo, intellettuale eretico con metà sangue russo nelle vene, portatore di un’inguaribile genialità. Erano loro, loro insieme a lei, ad animare i pomeriggi di via Siracusa, in cui un pittore come Tono Zancanaro poteva aggirarsi brillo, con il bicchiere di vino bianco in tasca, amorevolmente accudito da Chiara Restivo, l’altra anima femminile della ditta. Ma alla fine, era di Elvira l’ultima parola su tutto. La discussione poteva sembrare inconcludente, e forse lo era talvolta, ma il lampo negli occhi della «zarina», com’era stata soprannominata, diventava inconfondibile, passionale, quando si sentiva nel giusto e nessuno riusciva più a contraddirla. Questo della giustezza, o della giustizia, e della passione nel fare le proprie scelte, andranno ricordati come tratti caratteristici della sua personalità. Nella sua vita Elvira, come tanti, aveva dovuto subire tante ingiustizie, ma non si era mai rassegnata. La politica in fondo non la interessava, o non la interessava più. Teneva in grande considerazione, ed era davvero grata, solo a Napolitano, che nel ‘93, quando era presidente della Camera, l’aveva scelta come componente del consiglio della Rai. Ma la lunga vicenda processuale che per dieci anni, prima di vederla assolta, aveva messo a repentaglio il futuro suo e della Sellerio, l’aveva resa molto sensibile al modo in cui funziona, o non funziona, la giustizia in Italia. Per ciò, nell’ideale Pantheon degli autori di quarant’anni di casa editrice, insieme ai tanti autori giovani e vecchi della collana della Memoria, quella con le copertine blu, e con le illustrazioni scelte personalmente da Elvira, che hanno fatto la storia della Sellerio, c’è ovviamente Leonardo Sciascia e il suo Affaire Moro, che proiettò con successo la Sellerio su un piano internazionale. Ci sono Antonio Tabucchi, con la sua levità, e Andrea Camilleri, con la sua lingua dialettale su cui Sciascia non finiva di esprimere dubbi e Gesualdo Bufalino. Ma c’è anche uno scrittore spurio, sicuramente non tradizionale, come Adriano Sofri, che nell’orizzonte elviresco rappresentava il giusto e l’ingiusto insieme. Questa sensibilità, questa particolare attenzione a un tema così delicato e influente, ormai, sul destino della gente, si accompagnava, in Elvira, al suo particolare modo di essere madre. Era felice, assolutamente orgogliosa dei suoi figli, Antonio ormai seduto al suo posto alla guida della Sellerio, Olivia riscopertasi cantante e da pochissimo diventata mamma. Ma invece che del lavoro, in cui mietevano tranquillamente successi, si preoccupava esclusivamente di loro stessi, li inseguiva dappertutto mentalmente e con il telefono, si informava di continuo e in segreto con gli amici. Era apprensiva, si vergognava di esserlo, faceva finta, ma poi svelava i suoi timori. Restando sempre, anche in questo, una donna, una gran donna, siciliana.